Laura Rainieri, nata a Fontanelle di S. Secondo (Parma ) nel1943, risiede a Roma.
Per un decennio si è interessata della poesia femminile presso la Casa Internazionale della Donna di Roma; è stata consocia fondatrice, nella stessa città, per un altro decennio, della Associazione Culturale “Rosella Mancini” importante poetessa pugliese scomparsa nel 1995; collabora con l’Associazione “Periferie” e con la Biblioteca comunale “G. Rodari” per interventi culturali diretti al pubblico e alle scuole. In versi ha pubblicato: La nostra spada, la parola, Ibiskos, 1997: primo premio Padus Amoenus; Nessuno ha potuto sposarci, Bastogi, 2001; E serbi un sasso il nome, Campanotto 2004. Il racconto in versi La Bassa piana e Le Fontanelle, La Colornese 2012.
In prosa i racconti: L’ultimo Guancho, Campanotto 1998; Angelo pazzo e altri racconti, ExCogita, 2007; Badante sissignora, ExCogita, 2010. Un suo racconto dal titolo “Miraggio a Mosca” é stato pubblicato nella raccolta di racconti dal titolo “Incontrarsi”, nell’ambito del progetto ”Migranti e native” promosso dalla Provincia di Roma per l’anno 2012.
Le poesie di Laura Rainieri
Quest’ansia di madre
nella sua casa – a Fontanelle
magra più della metà.
Com’era bella
col viso tondo
di cipria profumata la scia.
Mangia una fetta biscottata
qualcosa – tirati su.
Il ventre è gonfio
di trafitture – non assorbe più.
Le frecce di San Sebastiano
com’è vero il mito cristiano.
Ogni poro è un foro. Dolore.
Occhi innocenti ora pieni di spavento.
Madre, inutilmente io figlia.
Sbarriamo la porta
Maria
Inutile mi provo.
Quel filino di voce mi raggiunge
annienta la mia voce.
Il tuo silenzio è la mia voce.
Le gambe stente
spezzano le mie.
Affossano con te le mie forze
nel fosso nel fosso
La sonda vaga impazzita
cerca la stasi in te.
Ma Atropos stringe e costringe.
Di qua ti chiamo
Maria
Se dicevi alla fine le preghiere
e non eri una beghina
– ti bastava bambina tirare il carro
con giogo che ti segava il collo
per le biolche di terra a mezzadria –
mentre balbettavi per consolazione
“È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago
che un ricco entri nel regno dei cieli”
ma presa da pietà
pregavi per il padrone
cammello che non passa;
se alla fine diciamo le preghiere
(non si sa alla fine a che santo votarsi)
la prima cosa a memoria in latino
che ti viene in mente,
imparata da bambino:
Ave Maria gratia plena
e non importa il senso
ma il suono sacrale
che si affaccia naturale alle labbra
come brillano le stelle
ma brillano
e il sole
nell’immensa solitudine
si copre della sua luce
le lenzuola fino al collo
sempre più sotto, al tramonto,
le ombre
a mezzadria
a memoria in hora mortis nostrae
Maria
Tra tutte la più gradita è l’Angelo
che sei il mio custode
quattro versi concisi, in amicizia
ma il custode e il custodito
illumina custodisci reggi governa.
Nessuna eco di morte
– di raro capita in preghiera –
nessun sobbalzo.
Tutto corre al cielo su cuscini di piuma.
E forse
ti beavi d’una pioggia d’angeli
abbeverarsi alla greppia del Signore
e tra quelli avrai anche tu l’ali
ali di pizzo d’angelo
le stesse delle tue bambine al Corpus Domini.
O quelli tutta essenza, così elegiaci,
di Rilke
luminosità raziocinante tradotta a questa terra
sfondano l’aria.
Non so se sulla scala li hai incontrati
Maria
Un brutto male
Ti venga un canchero
ci potrebbero ripensare.
All’apparenza il corpo è uguale
nei visceri la bestia conduce la battaglia.
Con zampe pelose striscia
risale gli organi si annida
come aquila reale sulla cima.
Azzanna con ventose e becco arcigno
il pasto mai non basta
sé rimpingua e il corpo si fa secco.
Viscida si erge ai piedi del letto
con triplice testa di serpente
arcuato t’inchioda ogni volta che.
Lasciate ogni speranza o voi…
che orribile sogno.
Buttiamolo via
Maria
Se avessi potuto fuor di bara
contemplare il tuo funerale
con gli occhi smarriti di coniglia
– proprio a mezzogiorno
quand’è l’ora che le donne il pranzo –
attonita, come di fronte a incomprensibile cosa,
li avresti mandati tutti a casa
con quel gesto ampio
e l’aria ne tremava
con cui sciò sciò sciamavi le galline
dai chicchi caduti sui tuoi piedi
– al tempo della trebbiatura –
il grembiule tra le nocche,
sventola bandiera nera,
Alarmi siam fassisti, abasso i comunisti
ma la fame Era (fuor di bandiera)
e quelle riottose dagli al chicco
la calca della chiesa fin fuori la porta
che sagra è questa – avresti detto –
febbraio non è tempo di San Martino
e saputo che
era per te
ti saresti stretta allo sciallino
fino a voler sparire, se già non fosse,
la vergogna galoppante per il gran disturbo
a tanta gente
nemmeno nell’ora estrema di
Maria.
Assaporare l’essenza
della morte pura
com’è, sarà sempre.