Chissà se ancora

 

⌈Ottobre 2023⌋ Chissà se ancora. Poesie in dialetto triestino di Roberto Pagan, Edizioni Cofine, pp. 56, ISBN 978-88-98370-97-9,  € 12,00

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IL LIBRO

I testi di questa raccolta di Roberto Pagan, finalista nel Premio nazionale Città di Ischitella-Pietro Giannone 2023, costituiscono una biografia in versi, condotta con abile leggerezza e umorismo. 

Vicenda privata che riverbera sfondi storici e sociali: la storia italiana dall’infanzia triestina nel ventennio fascista fino ai giorni nostri e alla odierna Roma degradata, passando per la guerra, il dopoguerra, il boom economico, gli anni di piombo. 

Un tuffo nel cuore del Novecento e un approdo al nuovo Millennio, denso di suggestioni, atmosfere.
Una raccolta che racconta le vicende di una vita al fuoco della Storia.

Note di lettura di Maurizio Rossi

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L’AUTORE

ROBERTO PAGAN è nato a Trieste nel 1934, dove si è formato nella scia degli ultimi rappre- sentanti di quella grande stagione giuliana della cultura mitteleuropea: Saba, Giotti, Stuparich, Marin. Dal 1969 vive a Roma. 

Scrittore, critico e, soprattutto, poeta. La sua opera in versi è raccolta in Là dove il periplo si chiude. Poesie 1983-2016 (Roma, Ed. Cofine, 2017) che ripropone le sillogi edite: Sillabe, 1983, Genealogie con ritratti, 1985, Il velen dell’argo- mento, 1992, Per linee interne, 1999; Miniature di bosco – 101 haiku, 2002, Vizio d’aria, 2003, Il sale sulla coda, 2005, Archivi dell’occhio, 2008 (vincitore Minturno 2009, finalista al Premio Fe- ronia 2009); Le belle ore del Duca, 2012 (premio speciale della Giuria del concorso nazionale “Marco Arpea”, Rocca di Mezzo, AQ). 

In triestino ha pubblicato Àlighe (Roma, Ed. Cofine, 2011, vincitore del premio nazionale Città di Ischitella-Pietro Giannone); Robe de no creder (Cose da non credere), ivi 2014 (finalista al Premio “Salva la tua lingua” 2015). 

Nel 2015 ha pubblicato Un mare d’inchiostro. Pagine su “pagine” ed altri cabotaggi (Ed. Cofine) che raccoglie la sua opera di critica letteraria. Nel 2016 l’autoantologia Alla finestra del mondo (Ed. Cofine, Collana Aperilibri). 

Del 2023 è Versi fuori stagione (1955-2020), poesie inedite in lingua e in dialetto triestino, edito da fuorilinea, Monterotondo (RM). 

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NEL LIBRO

I testi di questa raccolta di Roberto Pagan, finalista nel Premio nazionale Città di Ischitella-Pietro Giannone 2023, costituiscono una biografia in versi, condotta con abile leggerezza e umorismo. 

Vicenda privata che riverbera sfondi storici e sociali: la storia italiana dall’infanzia triestina nel ventennio fascista quando i genitori, pensandolo più al sicuro, lo mandarono dalla nonna e una zia «in quel paeseto / (sul Natison, Manzano, da Udine do passi)» e qui la scoperta della natura, della campagna e della vita contadina. 

Quindi il ritorno a Trieste e il dopoguerra con il fratello – «Nudavimo noialtri mi e mio fradel un poco / più cressudi intorno a ’ste spiagete sotocosta» – a infilzare con frecce improvvisate le sogliole «indormenzade» sui fondali e «gni giorno una busta ghe portàvimo / de ste bestiuze a mama». 

Dopo la laurea, gli anni trascorsi come primo incarico di insegnante ad Agordo «O dio, ’sto logo dove mai sarà? / In montagna, sù, nel belunese» e poi a Pordenone «’pena sposai / se gavemo fermadi a meza strada, / tra Veneto e Friul, a Pordenon. No iera / ancora una zità, ’mi me pareva / un se- maforo: xe rosso / te speti el verde e via per la tu’ strada». 

Il boom economico, il Sessantotto, l’arrivo a Roma nel 1969. Gli anni di piombo e, infine, anche il degrado: «… El resto / no cambia gnente. Se rompi sì, scale ponti strade. Bon, / fa- remo. Qualchidun farà. Forsi domani. E Roma / tuto ingruma: virus vacini malatie resurrezion onori / e glorie e guere e pase». E ritorna l’attualità… da cui, anzi, la raccolta poetica aveva preso l’avvio. 

Un tuffo nel cuore del Novecento e un approdo al nuovo Millennio, denso di suggestioni e atmosfere, in una silloge che racconta, in 28 poesie, le vicende di una vita al fuoco della Storia. 

(Dall’Introduzione di Vincenzo Luciani) 

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Chìssa se ancora sto vecio

xe bon de scriver do versi
nel vecio dialeto. Che senza de quel
Trieste no iera: la gente
de tute le raze solo cussì
se podeva capir. Che perfina
Svevo e Joyce col dialeto se la godeva.
Che un l’italian lo scriveva magari
pensando tedesco e quel altro parlava
ma come Dante Alighieri o come
le venderìgole ch’ogni matina el scoltava
vegnindo de casa. A sto punto el dialeto
pareva una mana. E per mi? Trenta
ani de vita a Trieste. In dialeto.
Solo a scola italian, se capissi,
e legendo sui libri. Trenta ani col vento
de bora. E dopo in trasferta.
Ma non me lamento, quei trenta
xe pieni de robe, de nomi, de visi,
de giorni e de noti de luna de stele
de mar: che a una vela ghe resta
sempre voia de vento. Ma i disi
che gnanca la bora xe più
quela de prima. Perché
tuto cambia. Va ben:
metemo in scarsela.

CHISSà SE ANCORA – Chissà se ancora questo vecchietto / sa scrivere un paio di versi / nel vecchio dialetto. Che senza di quello / Trieste non ci sarebbe stata nemmeno: la gente / di tutte le razze soltanto in quel modo / poteva comunicare. Persino / Svevo e Joyce in dialetto se la godevano. / Che l’uno italiano sì lo scriveva, magari / pensando in tedesco, e l’altro parlava / o come Dante Alighieri oppure come / le banconare al mercato che ogni mattina ascoltava / uscendo di casa. A questo punto il dialetto / pareva una manna. E per me? Trenta / anni di vita a Trieste in dialetto. / Solo a scuola italiano, lo si capisce, / e leggendo sui libri. Trenta anni col vento / di bora. E dopo in trasferta. / Ma non mi lamento, quei trenta / son pieni di cose, di nomi, di visi, / di giorni e di notti di luna di stelle / di mare: ché a una vela rimane / sempre voglia di vento. Ma dicono / che neanche la bora è più / quella di prima. Perché / tutto cambia. Va bene: / mettiamocela in tasca.

Co’ i astronauti

E po’ che xe anca sti altri:
sì, i astronauti che quei
no i ga paura de gnente: là fora
impicadi su un ganzo, ch’i smola
una vida e intorno xe solo…
cossa xe? Aria: no, picio là in fondo
xe un mapamondo: noi semo:
la Tera, ma picia, ma sola:
e lori soli nel gnente. E xe anca
una dona più brava de tuti. E dopo ?
Dopo andemo su Marte. A far cossa?
Per vèder le stele e farse la guera
anca lassù? Mi gavessi paura
solo a pensarme tra i busi neri
ch’i spuda fogo ’sti qua e i se magna
uno co’ l’altro. Ma cossa? No iera
quassù el paradiso una volta? Ma adesso
mi torno intanto a Ischitela, magari
col paracadute. Mi, el premio
no ghe lo lasso
gnanca a ’sti mati.
Ch’i resti su Marte.

CON GLI ASTRONAUTI – E poi ci sono pure questi altri / sì, gli astronauti: che quelli / non hanno paura di niente: là fuori / appesi a un gancio, che svitano / una vite e intorno c’è solo…/ cosa c’è? Aria. No, piccolo là in fondo / c’è un mappamondo: noi siamo, / la Terra, ma piccola, sola: / e loro soli nel niente. E c’è anche / una donna più brava di tutti: E dopo? / Dopo andiamo su Marte. A che fare? / A vedere le stelle e a farsi la guerra / anche lassù? Io avrei paura / solo a pensarmi tra i buchi neri / che sputano fuoco e si mangiano / uno con l’altro. Ma come? Non c’era / una volta quassù il Paradiso? Ma adesso / io ritorno intanto a Ischitella, magari / col paracadute. Io, il premio / non glielo lascio / neanche a questi matti. Che restino su Marte.

Mi solo in trasferta (I)

Iera ancora tedeschi soto casa
e mi dovevo far la quarta.
No so perché, ma solo a mi in familia
i ga pensà de mandarme nel Friul, là iera
restade sole le due done (nona e zia
per mi) con una cugineta un poco
indormenzada. El capofamilia
morto là, ’pena arivà zovine ancora: el cor
no lo gaveva perdonà. Ma nelle sue intenzioni
lù sperava de risparmiarghe ai altri in quel paeseto
(sul Natison, Manzano, da Udine do passi)
el pezo dela guera: quel che alora
i ciamava sfolamento.
Mi iero ’ssai in confidenza con tuti lori
come de familia. E forsi qualchidun
gaveva pensà che mi putel podessi
in qualche modo esser de aiuto
almeno per quela putelina
che la me iera ’ssai afezionata.
E sempre la xe stada, povera
Gianeta, tuta la sua vita.

IO SOLO IN TRASFERTA (I) – Sotto casa c’erano ancora i tedeschi / e io dovevo fare la quarta. / Non so perché, ma solo a me di tutta la famiglia / avevano pensato di mandare in Friuli: / là erano restate sole le due donne (per me nonna e zia) / con una cuginetta un po’ / stralunata. Il capofamiglia / morto là, appena arrivato, ancora giovane: il cuore / non l’aveva perdonato. Ma nelle sue intenzioni / lui aveva sperato di risparmiare agli altri in quel paesetto / (sul Natisone, Manzano, due passi da Udine) / il peggio della guerra: quello che allora / chiamavano sfollamento. / Io avevo molta confidenza con tutti loro / come se fossi di famiglia. E perciò qualcuno / aveva pensato che io, benché ancora bambino, potessi / in qualche modo essere d’aiuto / almeno a quella bambinetta / che mi era davvero affezionata. / E sempre lo è stata, povera / Giannetta, per tutto il resto della vita.

Finale. Seremo botega

Adesso sì, oramai
xe tardi e qua podemo
serar botèga. Ocio,
che buto zo la lama. Ciàcole
gavemo fate, frìtole* no so.
Anca un poco paiazi. Un vecio
el dovessi salvar la dignità. Che adesso
te ga come du’ anime. Xe una,
sta qua più triestina, che per darse
coragio la te spara
quel tanto de morbìn
che stava in fondo. L’altra
ghe basta l’italian. Più fiapa,
più che parlar la devi
pensar, per quel che resta,
come se fa a morir.

FINALE. CHIUDIAMO BOTTEGA – Adesso sì, ormai / s’è fatto tardi e qua possiamo / chiudere bottega. Attento / che butto giù la serranda. Chiacchiere / ne abbiamo fatte, frìttole non so. / Un poco anche pagliacci. Un vecchio / dovrebbe salvare la dignità. Poiché adesso / hai come due anime. Una, / questa più triestina, che per darsi / coraggio ti spara addosso / quel tanto di umorismo / che stava sul fondo. L’altra, / le basta l’italiano. Più fiacca, / più che parlare deve / pensare, per quel che rimane, / come si fa a morire.

* Ciacole no fa fritole: è un antichissimo e ancora diffuso proverbio popolare che in sostanza richiama alla serietà del concreto: dove “fritole” sono le frittelle, un dolce che evidentemente si otteneva friggendo (e non chiacchierando). Da notare, comunque, l’efficacia metrica ottenuta con l’accostamento di due parole sdrucciole: tanto più originale che non, per esempio, una rima.