Le due anime del poeta Roberto Pagan

Lettura e scelta poesie di Maurizio Rossi

 

La domanda del titolo, rivolta dall’autore a sé stesso, impegna anche il lettore a giudicare se sia ancora integra l’abilità del poeta triestino nell’uso lirico del dialetto natale. Ma, oltre a ciò, il dubbio scava a fondo: chissà se ancora l’anima triestina abbia il coraggio per “spararti addosso/ quel tanto di umorismo/ che stava sul fondo…” e l’altra anima – quella italiana – ancora possa “pensare, per quel che rimane/ come si fa a morire” “Sta qua più triestina, che per dare/coragio la te spara/quel tanto de morbìn/ che stava in fondo. L’altra…Più fiapa,/ più che parlar la devi/ pensar, per quel che resta,/ come se fa a morir.” Egli confessa dunque di avere due anime e che queste non confliggono tra loro, ora, come neanche in passato.

Allora tutto torna, le poesie compongono un lungo racconto di un’altrettanta lunga e intensa vita, da Trieste, ad Agordo, a Roma; i ricordi d’infanzia si precisano negli anni degli stravolgimenti che hanno mutato il nostro Paese. Ma fino ad un certo punto: “La musica xe sempre quela” perché “quel che non cambia xe l’omo,/ che Dio me perdoni; la bestia/ più bestia che esisti nel mondo”. Sembra chiedersi Pagan, in sintonia con l’illustre suo compatriota Saba “Che resta da fare ai poeti” se la musica è sempre quella?: rimane la poesia onesta, che non si compiaccia di sé o cerchi il senso in parole che inseguono altre parole. Ecco un’altra prospettiva del “Chissà se ancora”!

Quel che è certo, la poesia “onesta” richiede studio e fatica. Così Roberto Pagan non sa se “poeti se nassi” , ma ricorda che già da quando era “Neanderthal nela grota” – un bambino, tanto tempo fa – imparava a comporre. “…per ogni bon conto mi intanto/ imparavo la metrica. Tuto de solo./ La poesia no xe quel. Ma forsi/ pol anca servir…” Imparava la metrica, la misura, il ritmo, la scansione, tutto quello che sostiene la poesia e che pian piano aiuta ad avere anche limpidezza di pensiero e di espressione, unite ad umiltà: le doti dei maestri. Per cui può dire oggi “Sì go capì, ma xe ancora qualcossa/ de meio che resta?”: le mamme coraggiose, papa Francesco, alberi, fiori, animali, il firmamento, i buchi neri, l’intelligenza artificiale… “Che se la natura fa tropi matezi, anca quel,/ fra teremoti e uragani, de chi se se fida?/ Se el tapo ghe salta/ tornemo a Pompei”

Poesia spesso fa rima con maestria e basta, ma così non per questo poeta, a cui piace “bordeggiare” coi versi.

Egli è “vela a cui resta sempre voglia di vento” anche se la bora non è più quella di prima. “Perché/ tuto cambia. Va ben:/ metemo in scarsela.” Mettiamo in tasca quello che viene, assicura Pagan, senza rassegnazione o rimpianti, confidando che possa sempre far comodo, domani.


Ischitella

Disèmola prima:

col “Premio” Ischitela fa rima. Altro

se me ricordo. Che in quela volta

go scrito ‘posta per vinzer. Volevo

méterme in gara con quela biondina

che iera furlana ma la viveva a Milan

(e ancora diograzia la scrivi

e la vinzi) . Ischitela, mi gnanca sto nome

né el logo savevo. Lontan?

Gnanca tanto de Roma, ma mi per rivarghe

ghe go messo una bona matina. E dopo

altre ore a trovar la stadela più giusta.

Valeva la pena: che subito tuti amiconi

come se fussimo nati là soto

el Gargano. E mi me disevo: ma varda

i miracoli che fa la poesia

e dopo la sfadigada un bicer.

Del resto no parlo: xe scrito nel libro

de la memoria. Xe un toco de storia:

che tanti ghe iera in quela serata. Magari

anche Pietro Giannone e quel me dispiasi

se lo gavemo sveià.

Ischitella. Diciamola prima:/ col premio Ischitella fa rima. Hai voglia/ se mi ricordo. Che quella volta/ ho scritto apposta per vincere. Volevo/ mettermi in gara con quella biondina/ che era friulana ma viveva a Milano/ (e ancora, grazie a Dio, scrive e vince)/ Ischitella: io non conoscevo né il nome/ né il luogo. Lontano./ Da Roma nemmeno tanto, ma per arrivarci/ ci ho messo una mattinata. E dopo/ altre ore per trovare la strada giusta./ Valeva la pena: che subito eravamo tutti amiconi/ come se fossimo nati là/ sotto il Gargano. E io a dirmi: ma vedi/ i miracoli della poesia/ magari dopo una sfaticata e un bicchiere di vino./ Ma non devo parlarne io. E’ scritto nel libro/ della memoria. E’ un pezzo di storia/ che tanta gente c’era in quella serata (della premiazione)/. Magari c’era pure Pietro Giannone/ e quello mi dispiacerebbe, / se l’abbiamo svegliato.


Cingar, la barcheta

Dopo, me vedo ‘ssai più solo.

Mio fradei no iera: forsi el lavora, forsi

za sposà. L’altro, più picio, a scola. Ma intanto

gavevo sta’ barcheta: de corsa saria sta’,

ma fora staza. La iera de un amico. Ma lu’

el xe andà a Gorizia, a mi el me la lassava.

E mi gavevo ‘ssai cura, a dir el vero, che inverno

e primavera la custodivo in squero, la netavo,

ghe cambiavo la stopa, pituravo. Dopo

andavo solo dove che podevo. Poco:

dal Cedas fino a Mìramar e ritorno,

ma intanto de solo me imparavo i truchi,

co’ i spaghi e corde bazilavo,

ma i nodi giusti chìssa se savevo.

La se ciamava Cingar sta barcheta:

roba de scola quela volta, el nome iera

un personagio del Morgante: Pulci,

Rinascimento. In fin dei conti el classico

te vedi che serviva, almeno

per le barche. Pecà, che sul più bel,

quando che mi cominciavo a farme i iossi

xe vignù un rabioso temporal, e alora te ga voia

corde enodi. El becacin xe finì su la scogliera.

Con lu xe finì anca el poema

del mio rinascimento. Iero

laureà. Go saludà Trieste.

Cingar, la barchetta. Dopo, mi rivedo assai più solo./ Mio fratello non c’era: forse lavora, forse/ è già sposato. L’altro, più giovane, a scuola. Ma intanto/ avevo questa barchetta: sarebbe stata da corsa,/ ma era fuori stazza(un po’ troppo grande). Era di un amico. Ma lui/ era andato a vivere a Gorizia, e insomma me la lasciava./ E io ne avevo gran cura, a dire il vero, ché d’inverno/ e primavera la custodivo nello squero, la ripulivo/ le cambiavo la stoppa, ritoccavo la pittura. Dopo/ me ne andavo da solo, fin dove potevo. Non lontano:/ dal Cedas fino al castello di Miramare e ritorno./ E anche da solo cercavo di imparare le astuzie/ manovrando col sartiame e mi ingegnavo con funi e gomene/ ma i nodi giusti chissà se sapevo farli/ La barchetta si chiamava Cingar:/ ricordi di scuola di quei tempi: il nome veniva/ da un personaggio del Morgante: Pulci,/ Rinascimento. In fin dei conti, il liceo classico,/ vedi che serviva almeno/ per le barche. Peccato che sul più bello,/ quando io cominciavo a farmi le ossa,/ capitò un temporale furioso, e allora hai voglia,/ corde e nodi. Il beccaccino finì sulla scogliera./ Con lui finì anche il poema/ del mio rinascimento. Ormai ero/ laureato. E ho salutato Trieste.


ROBERTO PAGAN è nato a Trieste nel 1934, dove si è formato nella scia degli ultimi rappre- sentanti di quella grande stagione giuliana della cultura mitteleuropea: Saba, Giotti, Stuparich, Marin. Dal 1969 vive a Roma. Scrittore, critico e, soprattutto, poeta. La sua opera in versi è raccolta in Là dove il periplo si chiude. Poesie 1983-2016 , edito nel 2017, che ripropone le sillogi edite: Sillabe, 1983; Genealogie con ritratti, 1985; Il velen dell’argomento, 1992; Per linee interne, 1999; Miniature di bosco – 101 haiku, 2002; Vizio d’aria, 2003; Il sale sulla coda, 2005; Archivi dell’occhio, 2008 (vincitore Minturno 2009, finalista al Premio Feronia 2009); Le belle ore del Duca, 2012 (premio speciale della Giuria nel premio “Marco Arpea”, Rocca di Mezzo, AQ). In triestino ha pubblicato Àlighe 2011, vincitore del premio nazionale Città di Ischitella-Pietro Giannone); Robe de no creder (Cose da non credere), ivi 2014 (finalista al Premio “Salva la tua lingua” 2015). Nel 2015 ha pubblicato Un mare d’inchiostro. Pagine su “pagine” ed altri cabotaggi che raccoglie la sua opera di critica letteraria. Nel 2016 l’autoantologia Alla finestra del mondo. Del 2023 è Versi fuori stagione (1955-2020), poesie inedite in lingua e in dialetto triestino.

Roberto Pagan “Chissà se ancora” Poesie in dialetto triestino, Ed. Cofine, Roma-2023

Maurizio Rossi 8/11/2023