Sergio D’Amaro

Poeta e narratore

Sergio D’Amaro è nato a Rodi Garganico, ma risiede a San Marco in Lamis, dove continua da anni la sua attività letteraria e dove è tra i principali animatori di due Centri studio sull’emigrazione e su Joseph Tusiani. Ha dedicato molta attenzione a Carlo Levi, pubblicando una biografia (in coll. con G. De Donato, Baldini Castoldi Dalai, 2005), una monografia e un carteggio, e organizzando due convegni di studio.

Tra le sue opere vanno ricordate Le caselle mancanti (1986), Il paese che ricordo (1996), Canti del Tavoliere (2003), Il nostro Adriatico (2006) e Italy Italien Italie Italia (in coll.) (2008).

Ha ricevuto riconoscimenti anche per la sua attività di poeta (Il ponte di Heidelberg, La scala di Beaufort, Beatles, Fotografie e altre istantanee) e di narratore (Gargan River, Terra dei passati destini, Romanzo meridionale). È inserito in alcune antologie, pubblicate da Laboratorio delle Arti, Crocetti, Universidad Católica de Córdoba, Palomar.

Dirige il semestrale “Frontiere” e collabora a “La Gazzetta del Mezzogiorno”, “Il Ponte”, “Incroci”, “Periferie”, “L’attacco”.

Settembre 2008

Le poesie di Sergio D’Amaro

(Caro Friedrich)

Da Il ponte di Heidelberg (Pescara, Tracce, 1990)

Caro Friedrich, grandi mani spingono il vento

tra i vasi esposti sul balcone.

Lontani vanno gli occhi da questa balaustra,

alle città, alle foglie, agli uccelli

alle pietre remote del passato.

Lenti sono i colori nella nebbia

opache le amicizie che non tengono

dove sapere le rotte per una stagione più calda?

Caro Friedrich, la barca è paziente

mentre notti e tempeste coprono il pontile

e tu ancora ritorni dalle passeggiate pensose

nel parco, accompagnato dal cane.

Bisogna partire

seguire i percorsi che sono assegnati

giungere alla meta del viaggio.

Osservo con te l’acqua del fiume che non ha fretta

e si muta in ghiaccio l’inverno

nel cielo livido di Heidelberg.

Dovremo aspettare, caro Friedrich,

aspettare, mentre è già quasi sera.

(24 giugno 1984)

(E’ passato l’inverno)

Da Il ponte di Heidelberg (Pescara, Tracce, 1990)

È passato l’inverno, caro Friedrich

la stagione che credevamo più fredda.

I ghiacci sono sciolti, l’acqua è libera

passano carrozze e signore con cappelli

la Friedenstrasse è in festa.

Ho rivisto ieri Hugo von Homburg, pallido,

il tepore di marzo non lo tocca

gli danno fastidio i pittori sul ponte.

Conosci la malattia di Hugo, Friedrich?

Soffre di progressiva perdita della parola

patisce seriamente e talvolta ha inaspettati

accessi d’ira, se la prende anche con i cani.

 

L’inverno è passato, caro Friedrich,

l’inverno che credevamo più freddo.

Ora ci riscalda una brezza piacevole

andiamo più spesso a cena da Karl.

Ho sempre da parte la mia “Heidelberger Zeitung”

ho voglia di notizie fresche, non importa

che siano quasi sempre ripetitive.

Può darsi, anche, che legga di Hugo

della sua definitiva scomparsa dal ponte.

È così facile, infatti, morire per acqua!

 

(24 giugno 1984)

(E’ la seconda tempesta)

Da La scala di Beaufort  (autoed. 1998)

 

È la seconda tempesta

da quando sono tornato da Middlemark.

Ho sentito che l’Atlantico è in rivolta

proprio alle nostre latitudini

ed Anthony non si dà pace

per le sue mancate uscite al largo.

In queste spume, tra le nuvole di spruzzi

vado invano cercando qualche mare di prima

qualche rapida pioggia benigna

il volto di Robert con le labbra aperte.

La Natura urlante respinge

qualunque mano si tenda

ad afferrarne il turbine.

E nessuno più cammina

sotto le lampade annegate

nessuno più guarda alla torre

nessuno più saluta.

 

È la seconda tempesta.

Rompe rami, schianta insegne

confonde il confine della terra

ha una rabbia e una vita

molto simile alla vedova Cliquot.

I. Ingrandimenti [2001]

Da Fotografie e altre istantanee (Foggia, Sentieri Meridiani, 2008)

1.

Luce entro cui si raccolgono

le abbaglianti linee del paese

la cupola celeste del mattino

la striscia salata del molo.

Il cuore dell’infanzia batte

nel grembo di questo scenario

si radica molle un senso di passate brezze

di aromi resinosi di pinete

di magiche caldarroste

che riempiono le piccole mani.

Una barca che parte.

Verso est, verso la Dalmazia dolce e corrugata

come il sogno del mio amico Tomas

come la roccia ricoperta di muschio

profonda e ovattata.

 

2.

Chiesa di San Nicola.

Un po’ di Seicento e di Settecento.

Nelle file a destra, terza panca,

è posato il velo trapunto di una donna che passò

nel suo drammatico Novecento.

Le candele sono sempre nuove

l’altare lindo le vetrate smaglianti

e il vecchio organo che risuona

nelle sue ondose ferite.

 

3.

Le punte dei pini scorrono

sopra il tetto dell’automobile

che fugge ariosa tra le essenze

profumate di un’altra estate.

Come vanno in fretta questi aghi di tempo

Via Appia e Foresta Umbra

come pungono agli occhi

fosfeni calamitati.

 

4.

Tersa lastra di mare meridiano

amiche profondità di abisso

nudo miraggio di sabbie uniformi.

Un folle granchio s’è impadronito di me

è uscito alla riva infuocata

ha mosso la conchiglia inerme

è ritornato al suo fondo imperscrutabile.

 

5.

Isola. Due gabbiani sopra il faro.

Isola tra isole. Vapori freschi di onde.

Nuvole grigie, vicine a questo quadro eterno.

 

6.

Il vento ha urlato tutta la notte

graffiando anche l’alba e il sole difficile.

Ho ascoltato fino in fondo la sua arroganza.

Un viaggio del 1957

Da 20th Century Vox (inedito)

Quell’anno aveva l’ala degli dei.

Partivi, bambino, sull’onda della radio

coi suoni immersi in fondo all’anima

salvo dai primi incontri col mondo.

Beato te, Cupido tra i desideri

puri dell’età solare! Felice,

tu che appena sapevi l’abc

e cantavi come allegra cincia

sull’albero più alto del tuo cielo.

Solo la voce tenera degli anni

la caldarrosta stretta nella mano

la brezza lieve di una bianca Cùrzola…

Ti teneva certo il soffio vago di Venere

e una stella guidava la tua via.

 

Caro specchio, dimmi, quale elettrico

lampo illuminò la scena,

quale dio infuse vita a quegli occhi

che si aprirono grandi e stupiti

sul mare pacificato del dopoguerra?

 

Ritorni tu, mamma, a darmi l’antico pane

spalmato di zucchero e d’olio

nelle bolle infuocate della controra,

e tu, babbo, assorto nei tuoi pennelli

scampati all’acqua ragia e tuffati

in altro colore, gatti pigrissimi

e cani fedeli, chiese al fresco

di ruscelli alpini, copie amorose

di Raffaello. Gli stessi resinosi

odori della pineta Marzini

con l’azzurro trafitto da milioni di aghi.

La Guerra

Da 20th Century Vox (inedito)

La Magnani mitragliata mentre corre

ci mise nel cuore una ferita.

Quanti camion partivano

pieni di speranza, quanta gente

sulle strade polverose della guerra!

Tutti a casa! Ma dov’era la casa,

se tutto era caduto e il cielo

era ancora acre di spari?

Capitano, ci porti in salvo,

verso il mare che ci vide bimbi,

alla fonte che ci levò la sete.

Capitano, è ora di partire,

di tornare alla piazza degli antichi

giochi, delle intrepide corse,

di suonare la campana delle chiese

di ripiantare le erbe nell’orto.

Su, capitano, si tolga la divisa,

è ora di scrivere il suo pezzo

per il giornale che scandalo farà.

Poi verrà il 18 aprile ‘48

e tutto tornerà com’era prima.

Succo d’arancia

Da Succo d’arancia (inedito)

Bella giovinezza confusa con l’infanzia

pestata con l’uva dei primi sentimenti

ecco l’età avanza e la memoria corteggia.

Ho bevuto fino in fondo la bottiglia

spumante di illusioni, ma la gola è secca.

E te rivedo dolce riva d’acqua

e ciottoli bianchi e profumate serre

a te m’affido, mano materna d’aranci,

odoroso languore di meriggi

sereno balcone di sicurezze.

Cosa ti debbo, vita? E quale mistero

tocca al nulla che mi fece te

quale misterioso agguato di cellule

mi aprì a questa veglia di battaglie?

Il destino, se c’è, è chiuso in un’ora.