Ferdinando Falco: un grande poeta meridionale dimenticato

Recensione di Mario Melis

 

Sull’ultimo numero di “Capoverso”, rivista di scritture poetiche, fondata da Carlo Cipparrone e edita a Cosenza da Alimena per Orizzonti Meridionali è apparso questo interessante articolo di Mario Melis che qui di seguito riprendiamo.

La recente uscita del volume postumo di Ferdinando Falco (1936 – 2016) Della morte del caso del superfluo (per i tipi delle edizioni Cofine) uno dei maggiori poeti del nostro secondo novecento, obbliga, pure in estrema sintesi, a ripercorrerne l’intera opera, perché di lui poco si è occupata la critica e, non per colpa sua, nulla sa il pubblico della letteratura

Ne tratterò anche sottolineando il legame fraterno con un altro poeta meridionale, Achille Serrao (1936 – 2012) perché le loro opere sono risposte diverse a uno stesso problema: la ricerca dell’identità in una determinata condizione storica, anche dell’identità della poesia, declinandone alla nostra epoca la natura periferica

L’esame del volume resterà come in una coda, che la tirannia dello spazio ridurrà ad alcune riflessioni, spero tuttavia esaurienti, iscritte nel rapporto con tutto il lavoro di Falco.

Lui e Serrao hanno un riferimento ineludibile in Caivano, un paese in Campania, ora una delle capitali della camorra: l’uno nato lì e trasferito con la famiglia a Roma, l’altro venuto nella metropoli insieme ai suoi, nelle estreme periferie.

In entrambi il doppio disagio dello sradicamento e dello spaesamento.

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Cosa dovevano fare due giovani alla fine degli anni ’60, per vedere riconosciuto il loro status di poeti, se non aderire agli sgoccioli dell’ermetismo? Da qui gli studi e la vicinanza di Serrao a Luzi, sebbene intuissero la scelta come inadeguata per la ricerca della loro identità, tanto che dell’ermetismo assecondavano piuttosto la voce di Gatto e, per Serrao poi una certa ripresa, nell’abbaglio di una maggiore adesione alla realtà, dello sperimentalismo della neoavanguardia.

C’è in Falco, fin da subito l’espressione di una coerenza, come la troviamo in un volumetto autoprodotto del 1992, Piccole esecuzioni, in cui raccoglieva gli esercizi giovanili del liceo, con versi poi ripresi tali e quali nelle sue più ampie composizioni successive. In un testo vi si legge: ahi mio grido di dolore senza inizio né fine / ti ripeto a scandaglio di cielo simigliante / Meridione (quest’ultima parola tutta in maiuscolo).

E in entrambi la presenza prevalente del padre, il capofamiglia, quello che guida in una poesia di Serrao la comitiva notturna degli esiliandi dal paese.

In Falco, sempre nello stesso volumetto, la poesia Dall’esilio per famein quel paese chiaro che il padre mio esiliò per fame. Per i due la poesia è al maschile, poesia del padre, come in Sereni.

Facevano parte entrambi di quella massa degli sradicati dal Sud che coincide con il cosiddetto miracolo economico. Compagni di questa loro gente, la loro poesia è, al di là delle apparenze, anche poesia politica (nel significato della polis).

Piccole esecuzioni in un ripercorso del proprio itinerario. Il titolo è nel senso della musica. Emergeranno poi, e l’autore ne è retrospettivamente consapevole, le grandi, dove la poesia si farà storia, paradossalmente, come vedremo della non storia.

Piccole esecuzioni anche come sentenze capitali, che la poesia opera dell’attimo, cioè della realtà.

Serrao, a partire da una composizione dal titolo Post meridiem, dove compare per la prima volta un italiano mescidato al dialetto napoletano, non ancora il duro vernacolo dell’entroterra campano (in multilingua, in versi dedicati al padre in ospedale) sceglierà poi il dialetto.

La scelta sarà governata dall’esigenza di un recupero di identità, dove la rappresentazione poetica è per entrambi, Achille e Ferdinando, una poesia di racconto, in contrasto con il lirismo prevalente della tradizione italiana e, tuttavia, in modo anomalo lirica.

In Serrao l’atmosfera rimanda quasi sempre a un’ora notturna o antelucana, o almeno sonnambula, dove il presente è sottointeso come in un doloroso controcanto.

Per Falco, invece, non c’è che il presente, in cui siamo confitti, e il passato si mischia alle vicende dei giorni, connesse a una legge ineludibile dell’universo, che è poi sottesa all’intera sua opera. Da qui la scelta dell’Italiano, della poesia in lingua, la lingua della nostra esistenza quotidiana, ma una lingua -vedremo- complessa.

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L’universo è regolato da una legge ineludibile, di costruzione e distruzione, insensata, dove dall’una si genera l’altra. Si veda l’incipit di Composizione con foglie, in Tecnica di settembre (1974): come la nebbia raccoglierà conchiglie così dopo una lunga esitazione / fiori appariranno dove ci siamo amati.

Ma per l’uomo, che è oggetto della stessa vicenda naturale di costruzione e distruzione e ne è, contemporaneamente (perciò con una duplice veste) anche spettatore, il presente è insieme coscienza della propria condizione e paesaggio maleodorante e magmatico di deiezioni.

La legge tanto insistita, ma per così dire astratta nella lirica di Leopardi, si fa in Falco paesaggio.

La legge del moto universale è immutabile: non esiste che il presente, nella ripetizione del sempre uguale, e non è possibile la storia nel senso del mutamento. Ma la grandezza della poesia di Falco sta proprio in questo: aver fatto, a partire da questa impossibilità, poesia della storia. Le deiezioni, registrate nel paesaggio secondo un’accumulazione di matrice surrealista, non riguardano solo gli oggetti, ma si estendono alle azioni umane ridotte a frammenti confusi nel paesaggio, con uguale valenza.

Ed è qui che le piccole esecuzioni del volumetto degli esercizi liceali, di matrice ermetica, si fanno grandi, perché i frammenti delle vicende umane travalicano la misura del verso, occupano più versi, e si collegano ai successivi, con andamento nastriforme, come momenti di una sinfonia, che si è chiamati a comporre, prima nell’individuazione dei singoli movimenti, poi nella musica e nel senso globale del testo.

Ecco, allora, la poesia di una storia, della storia, paradossalmente senza la storia. In questo Falco riconosce il carattere del nostro tempo.

Ma di che lingua si tratta?

La cornice è aulica, perché si testimonia dei massimi sistemi, ma al suo interno la compresenza di elementi infiniti, del caos si direbbe, non può che esprimersi secondo codici diversi: da quelli della tecnologia, al vernacolo meridionale, al Latino, ecc. ma con una preferenza per il vocabolo desueto, teso al lessico originario, perché Falco ha imparato la lezione leopardiana. I termini del linguaggio consueto sono consumati dall’uso e, se si vuole richiamare all’attenzione della poesia, ad uccello va sostituito augello, a uomo homo e poi conquiseverno, ecc.

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Si pone a questo punto il problema della lettura critica della poesia di Falco.

Fuorviati della concezione sottesa all’opera, alcuni ne hanno negato la natura lirica, seppure drammatica. Invece, a confermarla, oltre alla presenza insistita dell’io, direttamente, sta anche quella degli alter ego come Tibullo, Catullo, Zosimo, in rimandi eruditissimi.

Un’ulteriore conferma di questa natura viene dal volume postumo.

È vero, come scrive nella prefazione Paolo Memmo, che si tratta in fondo di due libri in uno. Tuttavia Falco li ha correttamente uniti, perché l’uno rimanda all’altro.

Il secondo risponde, nella stesura manoscritta, a un’idea di poesia come manufatto, prodotto artigianale, legato alla trasmissione della mano, del corpo, corporale. Ecco ancora, ma in atto, all’evidenza, la lezione leopardiana.

Il primo dei due libri prevede una continuità con i modi antichi di Falco, qui semplificati, con una ricorrenza per la quale spesso al corpo del testo segue una formula caudale come di una lezione dedotta. Sembra quasi che Falco istruisca se stesso con un epilogo riassuntivo della propria esistenza, umanamente comprensibile, ma talora confliggente con le ragioni della poesia.

Stessi i temi e persino i titoli rispetto al passato (Lettere a una donna lontana, Riflessioni sulla pioggia) e poi quel canto per il padre morto (la poesia al maschile) dove però ora il destino di esiliati si fa di tutti, e sottintende il fenomeno delle attuali migrazioni: … con lo sciame dei simili nel mondo.

La terra da cui si emigra è chiara come nei testi delle Piccole esecuzioni.

Se il moto di distruzione e costruzione è insensato, allora domina il caso. Ecco perché il termine nel titolo della raccolta, dove la divaricazione con l’insistito io penso, che è la constatazione della realtà, produce la solitudine.

Ancora poesia politica, come nella denuncia per quell’asbasto, l’amianto, che distrugge paesaggi e uomini, nelle Sette poesie del primo dei due libri, datate da Acireale

Il legame con il secondo libro, che ha testi di una bellezza assoluta, sta in un elemento in quest’ultimo più privato.

Nelle grandi composizioni di Tecnica di settembre del 1974 e di L’ampiezza a dimora del 1988, l’io era l’emblema di una condizione generale dell’uomo, vittima e spettatore della legge immutabile di costruzione e distruzione della natura, sicché mancano spesso specificazioni di luoghi e tempi.

Nel secondo dei due libri, invece, si insiste su un piano della realtà più privato, l’abbiamo definito, con determinazioni precise, unificate in una specie di taccuino del vecchio: lo scorrere del Tevere, che è quello dell’esistenza, le Chiacchiere alla fermata dell’autobus, Dicembre, in una poesia umanissima, senza tuttavia nulla perdere dell’antica eloquenza, insieme altra e uguale a quella passata, in un bilancio fedele.

Per questo, a chiusura proporrò a mo’ di esempio l’incipit di un testo straordinario, dal titolo Questa è solo eloquenza: ci rispondi.

 

forse che un cane solo mi domando

può essere più solo di chi siede

in cucina davanti ai mille spettri

di una divinità di scheda e valvola

È notte Un vento di giornale e cenere

infila dita e lingue e propri ritmi

nei diedri di un lichene ipernutrito

l’edera dico l’edera agitata

e sale al sole della lampadina

volve a quel sole tecnico e notturno

a gorgo a ghirigoro a garza a cerchi

l’anima stessa della sigaretta

Si ascolta un trepestio dietro la porta

Un messaggero forse o l’inquilino

misterioso che abita di là

e vi chiedo anzi chiedo se può un cane

solo essere solo quanto è solo

costui che siede e fuma

davanti a una platea di piatti in plastica

di molliche di bucce e carte oliate

disse il protagonista in bianco e nero

con le corde vocali del dio cubico

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Anche per questo commuove Falco, per la disperata devozione alla poesia, che pure sa altro dalla vita.

Mario Melis