Un altro bel libro della poetessa monrealese Patrizia Sardisco. Pagine confermative, se mai ce ne fosse bisogno, l’attitudine a nutrire la poesia con brillanti e inusitate metafore frutto d’una capacità di osservare oltre il dato reale, razionalmente rielaborato oltre il versante lirico-simbolico, al netto dunque del solo impeto creativo chiamato ispirazione. Come già nelle precedenti opere poetiche, in lingua come in dialetto, Sardisco immette nei propri testi meditazione, pensiero critico e filosofico senza mai perdere di vista l’essenza della sua coinvolgente poesia, ed è per questa ricchezza partecipata che insieme a lei entriamo nel nuàra (Il Convivio Editore, 2021), nell’orto-giardino di cui l’autrice dispone, nel cui humus pone a dimora la prediletta pianta fruttificante una parola instancabile che gemma senza soluzione di continuità da una strofa all’altra, pagina dopo pagina, verso dopo verso.
Nel campo semantico alacremente dissodato alle radici-origine di vita ovvero terra-madre accudita con abnegazione amorevole; terreno-territorio plasmabile, duttile cui dare forma compiuta attraverso la nominazione specifica; terra da vangare e concimare alacremente perché scorra la linfa, azioni multiple eseguite tanto a mani nude che con l’ausilio degli arnesi (ferri), cose, utensili, oggetti usati dai contadini come ad esempio la furlana (falce), la runca (roncola) e anche oggetti da cucina, contenitori stretti come il barattolo e le bottiglie, e il più largo e più significativo recipiente, il calderone che accoglie e informa la liquida fioritura linguistica (inchìrinni a cuarara/pi quagghiàrinni ‘astrattu (per riempire il calderone/per coagulare il succo). Un’alchimia inversa: non distillazione per alambicco, dunque, ma addensamento, amalgama della bio-fisiologia del sangue, del corpo tramutati in vuci ppi mmia sula/ vuci ppi mmia e ppi iddi/vuci c’un stinci (voce per me sola/voce per me e per loro/voce che non scolora). Voce interna che insieme alle mani imprime il calco, impronta biologica che via via diviene solco nell’orto in cui la poetessa abita, e su cui cammina e cerca, portando in dote alla sua propria indagine la doppia intelligenza, quella emotiva o empatica, e quella razionale, l’una all’altra necessarie e complementari.
Sganciata, autonoma rispetto alla pur grande tradizione dialettale, come del resto annota l’editore Giuseppe Manitta sul risvolto di copertina, questa voce frastagliata e tuttavia compatta per unitarietà stilistica “intesse trame intertestuali, cuce una affascinante tessitura metaforica” tra l’impalpabile e il tangibile, tra stupori e trasalimenti poiché – splendido assunto icastico – ‘un sugnu fora ‘i chiddu chi manìu (non sono fuori da ciò che tocco). Vivere nell’orto della parola è completa immersione, è senz’altro misurarne lo spazio avanzando con lentezza perché allo sguardo nulla sfugga; e come la lumachina senza guscio e peso, oppure come la chiocciola gravata dal carico della propria casa-scorza, guadagnare millimetro dopo millimetro, con pazienza e fatica, il territorio da esplorare; segnarlo con l’argentea bava, questo spazio metaforico-pedestre da vivere e capire malgrado la fatica: vaviàta ‘i babbaluci chi faccìa/ncapu crusti ri lippu// iri lassannu signa/ri cira chi si scunchi/ri lustru chi si squàgghia/appena nesci ‘i mmucca (bava di lumaca che riluce/su croste di licheni//andare lasciando segni di cera che scompare/di luce che si squaglia/ non appena esce di bocca). Coagulare materialità e immaterialità in un unico impasto linguistico con l’azione d’una scrittura incisa sul foglio-orto- giardino-corpo è, a nostro avviso, magistrale reazione, la sola possibile alla codificata e più che mai usurata sintassi del mondo. Non è, la scrittura di Patrizia Sardisco, azione passeggera e a cuor leggero, non come chiddi chi bannu e bennu (quelle che vanno e vengono), bensì un agire e reagire fortemente volitivo, determinato ad acquisire (in soma e psiche) ulteriore e più profonda cognizione delle cose, degli eventi dentro e fuori la realtà che pensiamo di conoscere.
Patrizia Sardisco, nata a Monreale, dove vive, scrive poesia in lingua italiana e in dialetto siciliano (parlata monrealese). Nel 2016 pubblica la silloge in dialetto Crivu, vincitrice del Premio Internazionale Città di Marineo e menzionata al Premio Di Liegro di Roma. Nel 2018 si aggiudica il Premio Montano nella sezione Una prosa breve; con la silloge inedita in dialetto ferri vruricati (arnesi sepolti) guadagna il secondo posto del XV Premio Ischitella – Pietro Giannone e, nello stesso anno, per le Edizioni Cofine dà alle stampe il poemetto eu-nuca, finalista al Premio ‘Bologna in lettere’ 2019 e vincitore della sezione opere edite del Premio “Città di Chiaramonte Gulfi’ 2019”. Del 2019 è la silloge Autism Spectrum vincitrice della IV edizione del Premio “Arcipelago itaca” e segnalata al Premio “Bologna in lettere” nel 2020. Nel maggio del 2021 ha pubblicato Lo spettro del visibile, poesie in italiano, Edizioni Cofine, collana “Aperilibri”. Con la raccolta dialettale Sìmina ri mmernu ha vinto la XVIII edizione del prestigioso Premio Città di Ischitella- Pietro Giannone (2021) e di recente pubblicata da Ed. Cofine.