Ricordando il Premio “Ischitella 2011” Il baleto de le àlighe di Roberto Pagan

Recensione di Maurizio Rossi

 

Nella dedica del libro Àlighe, vincitore del Premio “Ischitella- Pietro Giannone” 2011, l’Autore riconosce d’aver appreso, dai suoi cari, “tra le molte cose…il fasto dei colori, la pazienza delle parole, le avventurose inquietudini delle farfalle”. Mi piace iniziare proprio dalla “pazienza delle parole” che è caratteristica non solo di una vita onesta, ma anche di una poesia onesta, fatta di ricerca attenta, mai sazia di ciò che la mente suggerisce d’emblée. Ecco allora le àlighe, le alghe, che danno il titolo e il senso della raccolta con il loro “Baleto”, la poesia d’apertura, in sestine di senari. Pensare e scrivere sulle alghe, organismi semplici e primitivi ma indubbiamente fastidiose per i bagnanti, è già un gran merito del poeta Pagan; egli sa leggere nella realtà delle cose un senso che le travalica e nello stesso tempo resta loro proprio e le anima: al poeta basta coglierlo.

La silloge è in dialetto triestino, lingua e “anima” che “può spararti addosso quel tanto di umorismo che stava sul fondo” (Chissà se ancora- R. Pagan, 2023). Nella poesia “Dialetica del dialeto” l’autore afferma “Qua xe question de mimèsi”: per lui, il triestino è rappresentazione, più che imitazione della realtà, in accordo con  l’interpretazione aristotelica del termine; il dialetto che non esprime soltanto oggetti e significati, ma racconta e descrive, senza andare troppo per il sottile, uomini e cose, poiché nasce e vive nell’oralità quotidiana. “Purché il verso sia schietto”, intento che non resta tale, ma si realizza appieno nella costruzione di questi versi.

Dal nitore e dall’immediatezza dell’oralità scaturisce una raccolta poetica di un “nemo profeta” a Trieste, la sua Trieste; “nemo / xe proprio meno de meno…” e non c’è falsa modestia o umiltà non richiesta, ma semplice, malinconica constatazione di un ambiente che non lo riconosce più: nonostante lui abbia avuto illustri frequentazioni e amicizie letterarie, è un estraneo nel presente. La estraneità allora può divenire stranezza, o straniamento, se lui si pensa in dialetto – lingua madre – immergendosi ancor più in quello che era il suo ambiente, tra i poeti che conosceva. Si immagina persino come un novello Robinson che fa la morale al suo Venerdì: nella solitudine e nell’esilio confonde il tempo: “Ara el sol – el se disi ne la su’ lingua – xe l’alba./ Sol iera, ma quel del tramonto.” Viene spontaneo pensare che il poeta, anche attraversato dai ricordi, ha coscienza dell’età, dell’oggi in cui pensa e scrive, seppure con lo sguardo ironico a stemperare l’ansia del futuro.

Leggendo la poesia che ci offre Roberto Pagan, è come entrare in una grande e accogliente casa, aggirarsi tra mobili antichi senza provare  soggezione alcuna, osservare alle pareti  quadri di facile lettura ma densi di significato; affacciarsi alle finestre che non hanno imposte, anzi si aprono sulle strade e sui passanti, lasciando entrare odori e rumori. Ci si sente confortati in questa dimora calda d’inverno e fresca d’estate e invitati ad aggirarsi e a fermarsi nelle molte stanze. Si scopre che non manca neppure la cantina, con “intrighi da no creder tra festoni/ de ragnatele, strafanici (ingombri) che un, zerto, volessi/ liberarse ma no ‘l se decidi…”; metafora dell’animo che affastella complessi, tabù, depressioni, amori risciacquati…Ma va bene anche questo, perché la casa-poesia del Nostro è casa vera e viva, racconta un’esistenza che è “una corda tuta gropi. Che no basta Freud, ma gnanca un rigatier” che vorrebbe mettere ordine e ripulire. Allora è meglio – dice – chiudere la porta e mettere il lucchetto. Nonostante tutto, ci vuole misura e non serve smuovere più del dovuto.

Se in cantina resta tutto, anche quello che non si vorrebbe – continua a raccontare Pagan – , in casa, però, svaniscono le cose più importanti, come le voci: “possibile che qualche/ molecola no resti de tante che le iera/ drio i cantoni dei muri o su i sufìti…?” E tutt’attorno persino i colori mutano e alcuni si perdono, come tante vite lasciate sole; come gli animali, assimilati ai “sapiens” o presi a modello di un necessario cambiamento, d’una ribellione contro il “fango” del mondo. Pegore e mussi, cani, zigni, pesci, oggetto di una pietas, nutrita di studi classici e di anni d’insegnamento, ma soprattutto di umanità e-ducata: quella che non rimpiange il passato -perduta età dorata. E neppure quella che presuntuosamente nomina le cose e i sentimenti, per poi piegarli ad interessi che sviliscono e avviliscono l’ambiente e le persone.

Roberto Pagan “Àlighe” Ed. Cofine, Roma, 2011