L’immagine di copertina, una riproduzione di La firma in bianco di Magritte, introduce in misura efficace ai “viaggi incompiuti”, il cui compte-rendu in molteplici versioni costella questa nuova raccolta di Mario Melis. Delle sue Notizie dall’isola serbo un ricordo chiaro e caro.
Il quadro di Magritte anticipa ed evoca, a mio parere, un aspetto centrale del volumetto di poesie, un aspetto che viene coniugato dall’autore in una successione di testi che egli stesso, nella nota intitolata A mo’ di scusa, definisce “difficili”, un aspetto al quale possiamo conferire i nomi – pur sapendo del rischio di mendacità e di effimero sfioramento che già la sola pronuncia dei nomi può provocare, come Melis ci avverte in Come se pronunciare il nome fosse conoscere – di parvenza, simulacro, ombra, apparizione, fantasma.
Fin dalla prima lettura di questo libro, che esige ritorni e riflessioni anche – ma non solo! – per la fittissima rete di richiami, alcuni esplicitati, altri lasciati ‘in cifra’, il mio pensiero è andato alla seconda parte del Faust di Goethe, in particolare, al terzo atto di Faust II, all’incontro di Faust con Elena. Simulacro potentissimo, e pur sempre simulacro. Ecco, i “viaggi incompiuti” di Mario Melis sembrano provenire proprio da un lutto perpetuato, da una perdita che ha causato una cesura insormontabile, come da un Faust mai più ripresosi dalla sparizione e dalla definitiva assenza di Elena. Sappiamo che nell’opera di Goethe non è così, Faust trasforma il lutto in attività benefica per la comunità che avrà la ventura di conoscere; in Rendiconti di viaggi incompiuti, invece, il trauma diventa l’occasione, la scintilla, il terreno fertile per l’infinito poema del rimuginare, del ritornare, del ripescare, del rimestare, del riflettere.
Non a caso ho scritto “terreno fertile”, perché la trama complessa che ne risulta è ricca di spunti e ha il fascino del pungolo a ricercare. In questo pungolo perenne alla ricerca sta un altro punto di contatto tra il Faust di Goethe e Rendiconti di viaggi incompiuti di Melis. E così, proseguendo nella lettura, ritroviamo, in Il femminicidio e Il lamento di Elena, nella ripresa della leggendaria palinodia di Stesicoro – una sorta di ammenda dopo un precedente poema che accusava la donna di adulterio, poema per il quale era stato punito con la cecità – la vera Elena che vive in Egitto durante la guerra, mentre è il suo fantasma quello che gli altri vedono a Troia.
Terzo e rilevante punto di contatto è senz’altro la centralità rappresentata dalla guerra di Troia, topos formidabile e tremendamente attuale. All’inizio del testo Il lamento del guerriero, la prima parte del Dittico di un altrove, l’asserzione è inequivocabile: «La guerra di Troia non finisce mai. / Tardi il guerriero ha compreso in sé stesso il proprio nemico / e spera di ricevere uguale comprensione.».¿Porque piensas a la guerra de Troya?, Perché pensi ancora alla guerra di Troia?, testo già presente in Notizie dall’isola e ribadito qui in due lingue, spagnolo prima e italiano poi, sottolinea, più avanti, la valenza plurale dell’evento narrato dall’epos antico, la sua natura di catalizzatore di solitudini e di cecità permanenti, così come di confronti con la Storia.
La guerra di Troia, insieme ad alcuni personaggi (oltre a Elena già menzionata, ricorrono di frequente Ulisse e Penelope; anche Ettore e Andromaca fanno la loro apparizione), riporta a Omero, poeta, voce che non può, che non deve essere ignorata, perenne pietra di paragone.
Insieme ad Omero, altre voci poetiche sono nominate, voci maestre e anime affini, primo tra il “colonnello”, vale a dire il poeta Ferdinando Falco; poi il poeta catalano Salvador Espriu, il poeta neogreco Jorgos Seferis; poi, ancora, Thomas Stearns Eliot.
Il tributo che viene loro versato e riversato è una testimonianza d’amore, così come tutta la raccolta è da leggere come canto d’amore. Canto d’amore reso complesso e gravato da assenze e da esperienze, canto d’amore, con diversi accenti, dall’aspro al dolce, dall’esasperato al malinconico, dalla “serena disperazione” al lampo di luce, canto d’amore al corpo che è stato e che muta nel tempo, canto d’amore alla donna amata e, per vie insondabili collegato a questo amore, canto alle presenze che una volta abitavano i luoghi abbracciati con lo sguardo dal poeta (Spoon River a Palestrina), ai soldati italiani trucidati a Cefalonia, nella terra del mito e delle fonti (Staccarsi nel pensiero da te), canto d’amore alla Storia che è nel volume dei corpi (I corpi), canto d’amore, sempre, alla poesia e al patire per essa.
Ai rendiconti in molteplici versioni fanno da controcanto le Cronache nella parte conclusiva della raccolta. A ben vedere, tuttavia, non è la realtà e la fedeltà al vero (quale, poi?) a prevalere sul vagheggiamento; a ben vedere, è proprio attraversando le gole strette e le distese che sgomentano nei Rendiconti che si può giungere alla asciuttezza delle Cronache. Complementarietà, non opposizione in un universo che pulsa oscuro e, tuttavia, manda bagliori.
Mario Melis, Rendiconti di viaggi incompiuti, Edizioni Cofine 2019
©Anna Maria Curci
Come se pronunciare il nome fosse conoscere
Come se pronunciare il nome fosse conoscere
sebbene il nostro compito sia dire
trascuriamo i giorni che furono dati
continuando in un’altra vita.
Al margine del campo germoglio di Zaccaria*
che la terra nutre
la mano carezza.
Tu morivi un poco dopo in ritardo
testimone perché siamo soli.
Essere transitori dell’aria
e del cibo nel corpo
dove l’anima si stende.
Tutto pretende un viaggio
la voce la sostanza che cammina.
* Nel libro biblico di Zaccaria 3,8: “Ecco io manderò il mio figlio Germoglio”
Verso Itaca
Qui nessuno
ma lo sguardo dell’uomo
che percorre le membra
il sussurro che cancelli
prestato ai fantasmi dei marinai.
Niente vedrò a Itaca
per colpa degli occhi spenti
o perché non esiste.
E le ali dell’angelo recise
nel moto a te
mentre spazzi il cortile
una sera autunnale con passi d’ombra
verso la cerimonia della messa.
La guerra degli occhi non finisce.
Furbescamente si producono cadaveri
senza effusione di sangue.
Come se non fossimo già noi
occorre la proiezione falsa di “lettere”
come missive
negli intervalli dei segmenti d’alfabeto Morse
forse dalla radice di morire.
“Ti misurerai con un ostacolo
con il volto di donna”.
Funebre la barca
l’ultimo viaggio andiamo a Palestrina.
Ma pure questo consumato prima
al pensiero degli dei
anche dei tuoi
anticipando il tempo.
Tutti i gesti sono analitici
Tutti i gesti sono analitici:
nessuno di essi ha la pienezza di Dio.
Se sommi la vita di un uomo
il rapporto con l’eterno mantiene le proporzioni.
A lungo ci aggirammo tra le cose
che non c’erano
(il corpo è un luogo).
Le implorammo pregando il simulacro di noi.
Dimmi che cosa resta.
È passato il tempo
da quando le parole (non) avevano
la precisione dei margini delle isole:
e (non) tornavamo soli.
Sventagliate di pioggia penso sulla collina
quella dell’anima
e nebbia nelle cose.
Se non mi pensi
per salvarti ti penso:
così (non) è il deserto.
Le vicende hanno tutte una inamovibile coerenza.
Ma gli occhi si innalzano.
Ti abbandoniamo
e moriamo il dio dei luoghi
compagna di un’effimera sorte:
ci siamo abbandonati.
Il doppio
Tu non sai quali siano i miei giorni
nell’assenza di te
perché tu sei me stesso.
Nel ripostiglio della penna
della pena per fraintendimento
il giaciglio del tempo.
Non ci sono abbastanza distrazioni.
Se il personaggio si ribellasse al suo autore
sarebbero più vasti l’uomo e la poesia:
e lui ma (diversamente da ora)
sarebbe altrove.
Qui siamo nidi di passo
se la mano non ti stringo.
Avessimo la leggerezza
di chi deve morire.
Spoon River a Palestrina
Vieni cara vieni
(allargando i limiti dell’anima
come il serpente che muta la pelle
e abbraccia tutte le cose in cerchio.
Avessi potuto dormire nello stesso letto
insieme all’inganno
consanguineo alla vita).
E intendeva un viatico
fino alla periferia del seno
che segna un confine
ma tutto vuoto dentro
come un paese mancante
nella parola pronunciata senza un sostegno.
Analiticamente ossa membra
che a proprio danno rinnegano
un giardino-stanze
e un afrore di camera da letto.
Di quale veste spogliarti
per trovare te stessa
antidoto alla morte
sotto il martellare degli orologi.
pubblicato l’8 novembre 2019