Pietro Civitareale, Préime che ve’ le schìure (Prima che venga il buio)

Recensione di Carmine Chiodo

 

Pietro Civitareale, poeta, critico letterario, traduttore, è una presenza ben nota nel panorama della letteratura contemporanea. Nel corso della sua attività ci ha dato testi poetici in lingua e in dialetto molto apprezzati, e giustanente, da lettori specializzati e non. La presente raccolta, intitolata Préime che ve’ le schìure (Prima che venga il buio) e composta da testi scritti tra il 2013 e il 2018 ed altri negli anni precedenti ma mai riuniti in volume, è la quinta dopo Come nu suonne (Come un sogno) del 1984, Vecchie parole (Vecchie parole) del 1990, Le miele de ju ‘mmiérne (Il miele dell’inverno) del 1998 e  Ju core, ju munne, le parole (Il cuore, il mondo, le parole) del 2013.

Civitareale scrive in dialetto per non recidere i vincoli che lo legano al suo amato Abruzzo: il dialetto, per la precisione, del suo luogo di nascita e cioè Vittorito, un paese dell’aquilano. È lo stesso poeta, nella premessa alla raccolta, a precisare che il dialetto utilizzato, “così come la memoria glielo restituisce”, è quello del suo paese natio, che poi ha lasciato, “per motivi di lavoro”, nel lontano 1960, per trasferirsi, prima ad Alessandria, in Piemonte, e poi a Firenze, dove tuttora vive e svolge un’intensa attività culturale e creativa. Ovviamente egli non ha dimenticato il luogo dove è nato, la sua gente, ciò che ha appreso da essa, la parlata, l’amore per la natura. Non a caso la poesia, che apre la raccolta, porta il titolo significativo: Le parole tajje (Le tue parole), parole ascoltate ed apprese durante “la cetelanze” (nella fanciullezza) che però la lontananza non ha cancellato dalla sua memoria.

Dico subito che questo dialetto, questa parlata di Vittorito, è agevole a comprendersi nel suo complesso, possiede una marcata espressività  e mette bene in evidenza il rapporto sentimentale che il poeta ha avuto, e continua ad avere con il suo paese, con la sua diletta terra ed ancora con il paesaggio, con le sue acque chiare e lucenti, i suoi boschi folti ed ombrosi, le albe d’oro e d’argento: insomma, tutto un mondo le cui parole “me reschiàrene anchéure la véjje” (mi rischiarano ancora la via). La terra, il luogo in cui è nato, infatti, ricorrono spesso in queste splendide e nitide poesie, anche se il poeta, qualche volta, tende a reprimere il desiderio di ritornare appunto alle sue origini, alla sua terra che “sté vecéine i sté luntane, dentre ajju core / i alla féine de ju munne. Ma, pure / se ne’ me recorde chiue coma sci fatte, / le bene che te vuojje è sempre ju stesse” (sei vicina e sei lontana, nel cuore e alla fine del mondo. Ma anche se non mi ricordo più come sei fatta, il bene che ti voglio è sempre lo stesso).

Come si vede, sono espressioni dialettali di facile comprensione e fortemente sentite, percepibili anche da chi non conosce il dialetto di Vittorito. Versi chiari, naturali, istintivi che restano bene impressi nella memoria: “La véite è nu viajje i nen semme / niue a decide quande se parte i quande / s’arréive, addò cumenze i addò fenisce” (La vita è un viaggio e non siamo noi a decidere quando si parte e quando si arriva, dove comincia e dove ha termine).

Il tempo, però, travolge ogni cosa e dove c’era vita, case aperte e pulsanti appunto di vita, ora c’è rovina: “La case nen te’ chiue / né porte i né fenestre / e i ciéjje ce ìntrene / i ce jéscene come / se nen ce stesse chiue (La casa non ha più porte né finestre e gli uccelli vi entrano e vi escono come se non esistesse più). Ed ancora il tempo incide sulle cose, porta ruggine, produce degradazione e i bei giardini di un tempo ora sono diventati un groviglio di foglie e di rami: “La zappe i la fàuce / se so’ arruzzenéite / dentre ajju giardéine / che è deventate nu ‘ntréiche / de fojje i de réme” (La zappa e la falce sono coperte di ruggine nel giardino che è diventato un groviglio di foglie e di rami). E “Pure ju cane s’è fatte viecchie / i ciòppeche quande / me ve’ appriésse” (Anche il cane è invecchiato e zoppica quando mi viene dietro).

Versi stupendi, essenziali, con andamento narrativo, ma con piena adesione interiore, dei quali è ammirevole soprattutto la linearità del dettato; versi che, con termini precisi e rappresentativi, rendono bene i cambiamenti, ad esempio, che il tempo causa, la sua incidenza sulla vita umana, sulle cose, sugli animali (come nel caso, prima citato, riguardante il cane che zoppica e zoppicando va dietro il padrone). Poesie, inoltre, che sono dei quadretti, ricchi di suggestione e straripanti di vita, di sentimenti vari, di passaggi figurativi che si snodano in tutta la loro fluidità e bellezza; ed ecco ancora momenti particolari della giornata; e penso alla poesia Ma già ju ciele (Ma già il cielo): “Sta calènne ju sole / arrete alla muntagne / i la terre se sta spujènne / de ju vestéite d’ore” (Il sole sta tramontando dietro i monti e la terra sta spogliandosi del suo vestito d’oro),

Insomma, è il paese, la sua gente, il suo paesaggio, i suoi boschi, gli uccelli, le piante e le ragazze conosciute da adolescente a costituire il cuore di questa tenera, e talvolta dolce, poesia di Civitareale, la quale svolge vari temi e presenta molteplici e attraenti situazioni; ed ecco la meravigliosa poesia che si intitola I queste vastàive (E ciò bastava), in cui si parla di una ragazza che il poeta, ancora adolescente, vedeva passare tutti i giorni, ma non aveva il coraggio di farle un cenno: “Ma jéje nen tenàive ju curagge / de farte nu cenne, de dirte na parole” (Ma io non avevo il coraggio di farti un cenno, di dirti una parola). Di certo, una ragazza molto bella tanto “che la lengue / me deventàive de prete i le parole / me se fermèvene ‘nganne” (che la lingua mi diventava di pietra e le parole si arrestavano in gola). Solo uno sguardo c’era tra loro “I queste, queste soltante, vastàive” (E questo, questo soltanto, bastava). Ma ora che il poeta è lontano dalla sua terra, che vive altrove, lontano dal paesaggio di un tempo, ora “Ju ciele / è nu lenzìule de nùvele schìure, / ju sole, come nu furastiere, se fa / vedajje i ‘nse fa vedàjje i la gente, / che te passe accante / te uarde, come se nen ce stisce” (Il cielo è un lenzuolo di nuvole scure, il sole, come un forestiero, si fa vedere e non si fa vedere e la gente che ti passa accanto, nemmeno di guarda, come se non ci fossi).

Lo ripeto. Vari momenti esistenziali, incisivi, molto chiari si rilevano in queste poesie, dove la mente del poeta va, ad esempio, a certe ragazze o ad una, in particolare, che per poterla vedere si apposta dietro l’angolo di una casa, aspettando che si affacci alla finestra e quando alfine la vede, viene detto con pregnante, pronta ed affascinante espressione dialettale: “Ju core me faciàive nu zumpe / ‘mpiette” (il cuore faceva un salto nel mio petto) e “j’uocchie luccechèvene / de cuntentezze, come me succede / quande vàide spuntà ju sole / d’arrete alla muntagne” (gli occhi rilucevano di gioia, come mi accade quando vedo spuntare il sole da dietro la montagna).

Civitareale è poeta non della mente, ma del cuore, come si evince facilmente dalla sua poesia; ed al cuore infatti viene dedicata una poesia, intitolata appunto Ju core (Il cuore), in cui si leggono magnifici versi finali: “So’ sechìure che la véite sarebbe / chiù fàcele i belle, se stassàme / attente chiù alla véuce de ju core / che a quele de la mente” (Sono certo che la vita sarebbe più facile e bella se stessimo attenti più alla voce del cuore che a quella della mente). Il poeta sente questa voce, che alimenta e genera poesie belle, terse e di profondissimo significato esistenziale e poetico, e, sempre ascoltandola, riesce a creare espressioni dialettali affascinanti e di notevole resa poetica: “i, quande càpete, ju core se mette / a vatte accuscì forte i leste che pare / na campane quande sone a feste” (e quando accade il mio cuore si mette a bettere così forte e lesto che sembra una campana quando suona a festa). Talvolta però il cuore è nero, come quello della donna, di quella donna che fa finta di non conoscerlo: “i jèje tajje uardate / i reuardate, ma tu sci fatte / sempre finte de niénte / come se ne me cuniscisse” (io ti ho guardata e riguardata, ma tu hai sempre fatto finta di niente, come se non mi conoscessi). Bastava soltanto uno sguardo: “na vota sole / pe’ fa de méjje la perzéune / chiù cuntente de ju munne” (una sola volta per fare di me la persona più felice della terra).

Nella poesia di Civitareale la realtà esterna, il paesaggio, con i suoi eventi naturali, ed i momenti interiori, ciò che sente, coincidono e quindi l’io poetico canta varie situazioni; ed ecco, ad esempio, quella di una pianta di ciliegio, che viene presentata come un’entità vegetale che il poeta, da fanciullo, ha visto a mano a mano crescere nel tempo, e che è diventata per lui un altro io, quasi un suo simbolo di vita; e sono ancora le cose, gli aspetti della natura con i quali è costantemente in sintonia, in questo caso le foglie autunnali, che fanno dire al poeta: “Accuscì, come fojje d’autunne / trascenate da ju viénte, / aspettémme che la sorte / fa de niue quele che vole” (Così, come foglie autunnali trascinate dal vento, attendiamo che la sorte faccia di noi ciò che vuole).

Poesie, dunque, quelle di Civitareale, fittamente intrecciate tra loro, le quali, dipanando il filo della vita, ne segnano, sul piano oggettivo e soggettivo, gli eventi salienti, attraverso un dettato poetico che si configura come un colloquio interiore con la realtà delle cose. Per tale ragione, la sua esperienza poetica merita attenzione per i temi trattati e l’uso singolarissimo che egli fa del suo dialetto nella rappresentazione e nella interpretazione dei suoi sentimenti sia quando sono sostenuti e nutriti dalla gioia che quando sono minati ed incupiti da un’ombra serpeggiante di malinconia.

 

Pietro Civitareale, Préime che ve’ le schìure (Prima che venga il buio), Edizioni Cofine, Roma, 2019, pp. 64.