Par Creisto inseina imbroio di Loredana Bogliun  

Recensione di Nelvia Di Monte

 

«Lingua di antica civiltà. Ancestrale. Maturata nell’intimo. Un pegno, una risposta alla recisione che ha sconvolto i destini delle genti istriane»: è opportuno partire dalla definizione, data dalla Bogliun nella premessa La mia voce, dell’antico idioma di Dignano d’Istria per addentrarsi nell’inscindibile legame di questa poesia con il suo luogo d’origine. Va subito precisato che, pure se non mancano riferimenti al dramma di persone costrette ad abbandonare case, lingua e affetti a causa di politiche ostili ad una serena convivenza, non prevale mai una retrograda nostalgia in una poesia che, non a caso, si apre con un invito: “begna scultà l’anema ch’a favela / in tal incanto ch’a no cugnusso tempo // par capei la paʃ” (è necessario ascoltare l’anima che parla / nell’incanto che non conosce tempo // per cogliere la pace).

Inediti «giovanili» vengono rivisitati e uniti a poesie recenti, in un anelito di libertà e di riconciliazione con se stessi, con il mondo. Parole che, restituendo la giusta memoria al presente, rendono credibile la speranza per le nuove generazioni: “bisogna dimenticare lo sfinimento dell’inganno / per i nostri figli semineremo frumento folto / perché forte e bello deve essere il mondo”.

Colpisce, nella poesia di Loredana Bogliun, il fondersi di elementi opposti, come se ciascuno richiamasse necessariamente l’altro. Al ripetersi di termini connotati di spiritualità quali anima, miracolo, mistero, si affiancano parole che rimandano alla concretezza della vita, della terra, dei gesti e del lavoro. Parole che emanano da un paesaggio talora aspro ma dove campagna e filari hanno il mare come fondale, l’incanto di una natura ariosa in cui immergere corpo e pensieri, la singolare bellezza che coniuga chiuso e aperto, piccolo e immenso.  Avviluppato in strette contrade è il paese ma intorno sono ampi gli spazi percorsi con i piedi e con la mente, lungo sentieri protetti da muriccioli (“con la forza del destino scritto tra i filari”) e strade che portano al mare, a confondersi con l’orizzonte.

Coesistono presenza e assenza. Un senso di abbandono sembra calare come la notte sul paese che “ha l’aria di monello sbrindellato” perché se ne sono andati via tutti, quelli un tempo conosciuti, con i loro antichi mestieri, e anche la chiesa tace. Ma nella memoria non manca nessuno e particolarmente tenera (in Elegia dignanese) è l’immagine dei genitori, come “piccolo e sempre vivo” è il ricordo dell’infanzia: “in tai oci vustri cati douto al bel / de sto paiʃ ch’a no se distouda // vuii altri sugnii le meie piere / doute le caʃe” (nei vostri occhi trovo tutto il bello / di questo paese che non si spegne // voi siete le mie pietre / tutte le case).

La poesia dedicata a Giacomini comprime in pochi versi i ricordi di persone ormai altrove ma non lontane, delineando nella stessa fatica l’elemento che unisce vita e terra nel gesto di chi lascia una traccia: il padre “che spingeva il vomere”, e il poeta, nascosto dietro la barba, uomo di penna con la sua “parola scritta che urla piangendo”.

Loredana Bogliun possiede una particolare capacità di captare l’essenza dei luoghi e dei suoi abitanti, in un “siamo insieme” che stabilisce immediate corrispondenze tra chi vi giunge e, come nella poesia Il paese che si chiama Ischitella, “la sua gente che si specchia nel mare / da questa parte alta / con il vento che le riporta l’onda”. L’idioma di Dignano si snoda in versi dalla metrica libera, simili a movimenti e soste nell’osservare e nel sentire, accogliendo in ritmate sonorità anche modi di dire popolari e particolari immagini locali, come nella descrizione del paese dei portici in cui maraveia-meraviglia rima con furbereia-furbizia così che “vula ch’a la cal sparagna / par la caʃa se vadagna […] la porta ch’a non verʃo gnente / ma la ʃento spareisso drento ”  (dove la strada risparmia / per la casa si guadagna […] la porta che non apre niente / ma la gente sparisce dentro). Quasi un gioco di prestigio, iniziato però con il paragone dell’anima che arriva dall’altra parte, dove niente è come prima ma uguale è lo stupore.

Assai diversa appariva la precedente raccolta Sfisse/Spiragli (Cofine 2016) che, in modo conciso, si potrebbe definire più introspettiva e tesa a tematiche affettive ed esistenziali: e di «silenzio e nulla sostenuti (sopportati, e infine trasfigurati) nell’immobilità attiva dell’ascolto» parlava Mauro Sambi nella postfazione, evidenziando l’«incessante variazione propriamente musicale» nello stile. Eppure sono tanti gli elementi disseminati tra quelle poesie che estendono la loro luce in questa nuova raccolta, come la figura paterna, più volte ricordata, la vecchia casa che “ti parla dalla penombra”, i luccichii del mare intravisti da lontano, il sentirsi in sintonia con l’ambiente (“quel fazzoletto di terra dentro il muricciolo di campagna / ha l’anima che respira”). Ma l’elemento unificante è più profondo, proviene dall’intimo legame con una terra che si considera propria non per possesso ma per appartenenza ad un comune paesaggio umano, allora così ben sintetizzato: “il mio passo su questa terra // sì, la terra, selvaggia ma amica / il suo silenzio nasconde tutte le mie speranze / ascoltalo con la pazienza del tuo cuore solitario // non so far altro per dirti di me”.

C’è un senso del sacro, non declinato a religione professata ma aperto alla percezione del mistero, della meraviglia, di qualcosa che, nel suo porsi oltre, amplia il limite del tempo e di storiche vicende. È la sacralità dei luoghi, della vita stessa che esige chiarezza e sincerità. In Sfisse era rappresentata dallo schiudersi del giorno alla luce: “ghe vuravo spalancà al sacramento / cul sul ch’a reiva de le sfisse larghe // el ne scalda al cor” (si dovrebbe spalancare il sacramento / col sole che arriva dalle fessure larghe // ci scalda il cuore). Qui assume un ruolo determinante fin dal titolo di alcune poesie e dell’intera silloge – Per Cristo senza inganno – nel segno di un bisogno di verità e speranza, per non abbandonarsi al pessimismo che talora rende cupo lo sguardo sugli eventi, sulle rovine di case e chiese abbandonate, sul venir meno di persone amate. E per orientarsi invece all’ascolto, al coraggio, all’utopia. Loredana Bogliun lo esprime chiaramente nella premessa: “Parlo di una storia lunga e tormentata, maturata nei silenzi. Incomprensibile a chi non vuole intendere. Parlo dell’amore dovuto, per il mondo, per il Creato”. E più volte lo modula nei versi delle poesie di questa silloge: “co vardi in alto cul cavo ch’a se ʃlounga / i vidi le stile in aligreia, squaʃi persa / me deighi ch’a no ʃì da scampà veia // a saravo da verʃi insembro sta maraveia” (quando guardo in alto con la testa che si allunga / vedo le stelle in allegria, quasi smarrita / mi dico che non si deve scappare via // dovremmo svelare insieme questa meraviglia).

Loredana Bogliun Par Creisto inseina imbroio, Book Editore 2021