I “Frutti siculisicani” di Gaetano Capuano

Premessa di Renato Pennisi e scelta di poesie della Redazione

Frutti Siculisicani, fresco di stampa, è l’ultima raccolta di Poesie siciliane nel dialetto di Agira (EN) di Gaetano Capuano, con Premessa di Renato Pennisi e Nota di Rosa Maria Dolcimascolo.

Per gentile concessione dell’autore, pubblichiamo qui di seguito il pregevole testo introduttivo di Renato Pennisi, poeta e profondo conoscitore della poesia siciliana. Seguono alcuni testi tratti dalla silloge. 

La poesia è quel prodigio che accarezza il luogo più intimo della nostra coscienza, e questo commovente percorso, questo segreto indugiare, è tanto più vero e sincero quando, a volte, lo si manifesta con la parola del dialetto. Perché è stata in dialetto la prima parola che abbiamo ascoltato nella nostra vita, e in dialetto sono state pronunciate le nostre prime parole. Gaetano Capuano con questo suo libro tripartito, tre tempi in una sorta di sonata accorata e dalle tonalità luminose e dalle sonorità evocative, ci conduce tenendoci per mano nel proprio mondo di luoghi, nostalgie ed affetti. E lo fa prediligendo toni stavolta morbidi dopo gli irti e comunque sferzanti delle sue più recenti prove, e penso a Milanisarî e a ’Ncàlia ncàlia, e soprattutto al polemico ed irruento Circu in cui censura il falso apparire e l’ipocrisia dei frequentatori dei social, e in fondo la loro sostanziale inutilità, di Facebook in particolare.

Ma in quest’ultima e nuova prova lo sguardo del poeta di Agira ripiega improvvisamente nella sua dimensione più privata, segnata da recenti perdite e inaccettabili dolori, che hanno ravvivato più lontani e mai del tutto accettati lutti.

Protagonista della prima parte del libro, introdotta da un programmatico sonetto, è la figura paterna. Siamo alle radici, ai primi anni, a quella che sarà la formazione antropologica e caratteriale del poeta di Agira: ’rraccama câ tinagghia dâ so fantasia / cancedda e barcunati Frutti siculisicani 8 a martiddati / e pi vucchi dê so figghi affamati / a vini di fori u sancu ci scattia […] Accussì furgiannu ’a lena ca mpuni / pati e sumporta a usu Cristu ’a cona / firrannu l’arma di l’arba â fanura (Ricama con la tenaglia della fantasia / cancelli e balconate a martellate / e per bocche dei propri figli affamate / a vene di fuori il sangue gli pulsa […] Così forgiando la lena che impone / patisce e sopporta come Cristo l’icona / ferrando l’anima dall’alba al tramonto).

Il padre è il primo maestro, il primo esempio, sinonimo di sacrificio e fatica, di onestà e di infanzia. Incancellabile, anche nel segmento del distacco, nella contestualità pittorica con efficace sintesi (e mentri fori chiuvia / un surruscu di suli ni quadiava – e mentre fuori pioveva / un baleno di sole ci scaldava). Perché il padre è stato u mastru travu (la trave maestra) su cui tutto è posato e che tuttu regge, e di cui va rinnovato e raccontato anche il minimo particolare, che diviene luce nei suoi versi, compreso il çiauru (il profumo) cuomu chiddu dê Sacchisi / o Alfa / ca sintia nê so idita / ’ngialinuti dô fumulizzu (come quello delle Sax / o Alfa / che sentivo nelle sue dita / ingiallite dal fumigare). Capuano rimasto sulu suliddu / nâ casa di ma patri (solo soletto / nella casa del padre) avvia un dialogo di cui i poeti sono capaci, un dialogo sincero perché non più velato dal quotidiano, senza sottintesi, dal quale emergono soltanto i passaggi necessari, quelli in alcun modo non eliminabili, un colloquio con chi non c’è più e si manifesta nei nostri sogni.

Da segnalare la bellissima Dduoppu na notti di timpesta (Dopo una notte di tempesta), uno dei testi migliori di Capuano, in cui la forza descrittiva si unisce a un avvertimento nostalgico, lieve, perché ciò che abbiamo vissuto non si spegnerà mai nella memoria almeno finché non ci sarà qualcuno capace di raccoglierlo e di raccontarlo a altri. Così le lacrimi di surfararu (lacrime del solfataro) non sono una reliquia remota e difficilmente comprensibile con la sensibilità dei nostri tempi, ma vivide nella loro accezione più intima e rappresentativa.

Mi sembra di avvertire l’ammonimento in questi versi, e cioè che nella solitudine c’è pace. Il lascito morale lasciato dal padre è l’incoraggiamento ad andare incontro alla vita senza incertezze, poi il tempo, come sempre, farà giustizia. U tiempu scutola u passatu, cioè come un setaccio, verrebbe da dire, il tempo salva e trattiene pietosamente soltanto le pagine più importanti della nostra vita. E attorno al padre una piccola folla di ombre. E soprattutto la figura della madre, simbolo dell’impaziente attendere del ritorno del figlio che si è trasferito a Milano, attesa su cui sembra accanirsi anche il ritardo dell’aereo: Vintiquattru misi / ntall’aspittanza / chiù du’ uri di apparecchiu / – in ritardu strieusu – (Ventiquattro mesi / nell’attesa / più due ore di aereo / – in ritardo incomprensibile -), madre adesso câ cruna ’n manu / ntall’autu dê cieli (con la corona in mano / nell’alto dei cieli), ma sempre presente e con il desiderio di sfornare insieme mustazzola e cassateddi (mostaccioli e cassatelle).

La seconda parte del libro, direi il secondo tempo della partitura, è invece un’irruzione nel recente passato. Sono poesie dedicate a Franco Loi, e alla moglie Silvana, espressione del legame tra il grande poeta milanese e il poeta di Agira finito a Milano quasi per un dispetto del destino. Capuano racconta il calore e la gentilezza di Loi, a partire dall’episodio in cui riceve una telefonata di ringraziamento per avergli inviato un libro di poesia. La poesia si annida nelle cose semplici, lei che apparentemente è la più gracile delle arti, apparentemente pronta a dissolversi, lieve come le ali di una farfalla ma così determinata e raccontare ad alta voce ogni tempo.

E Loi, amurusu pueta milanisi, diviene una figura paterna e rassicurante anche nei giorni in cui la vita grida ancora contro il poeta di Agira, i giorni della malattia e della morte della moglie Giovanna. Loi, che se da un canto offre lo spunto per interrogarsi sull’esistenza dell’anima, è presenza cordiale e sorridente nel salone da toeletta di Capuano.

Il terzo tempo è una deliziosa dedica al paese natale. Il tempo e la distanza hanno rafforzato il legame con Agira. Capuano ci conduce idealmente fino al Castello Saraceno, per la magia dei luoghi del paese: scarruozzu pinsera dintra vaneddi / strati strati di cuticchia e curtigghia (scorrazzo pensieri dentro vicoli / tra le strade acciottolate e cortili). I luoghi, amorevolmente nominati, cambiano e cambiamo noi stessi, ma rimane sempre impressa la fragranza dei profumi, delle ghiotte pietanze, dei luoghi, delle piante, profumi impossibili da ritrovare in qualsiasi altro luogo della Terra: D’Agira / quantu mi manca u çiauru / dô lardu friutu cu l’ova / e l’alivi niuri (D’Agira / quanto mi manca il profumo / del lardo fritto con le uova / e le olive nere).

Il dialetto di Agira è poi nucleo di questo mondo, vivida cerniera tra passato e presente, tra infanzia e l’età a cui si è giunti, tra luoghi e paesaggi differenti soltanto geograficamente distanti. Ma c’è di più.

Mi sembra che a lettura ultimata del libro si avverta una sovrapposizione, una coincidenza, tra la figura paterna e Agira. Tra il padre e la cara presenza di Loi.

È il cerchio che si chiude, dove tutto trova il proprio ordine e la propria quiete.

Portare nella coscienza il segno e le cicatrici delle nostre radici e dei nostri cari è fondamentale, ma non è tutto perché rimaniamo vivi finché qualcuno si ricorderà ancora di noi.

Renato Pennisi

 

Parannusi chê manu facci e uocchi

çiuscia ntê vamparigghi allammicati

chê vrazza attirantati arribbuccati

urchistria suonira a tuocchi a tuocchi

 

’Rraccama câ tinagghia dâ fantasia

cancedda e barcunati a martiddati

e pi vucchi dê so figghi affamati

a vini di fori u sancu ci scattia

 

E sprazzumannu l’allegru cravuni

mentri ntall’aricchi ’a ncunia ntrona

di ciniri ’n frunti allurdia i sudura

 

Accussì furgiannu ’a lena ca mpuni

pati e sumporta a usu Cristu ’a cona

firrannu l’arma di l’arba â fanura.

 

Parandosi con le mani faccia e occhi / soffia sulle braci quasi sfaldate / con le braccia tese rimboccate / orchestra suoni a rintocchi a rintocchi. // Ricama con la tenaglia della fantasia / cancelli e balconate a martellate / e per bocche dei propri figli affamate / a vene di fuori il sangue gli pulsa. // E frantumando l’allegro carbone / mentre nelle orecchie l’incudine rintrona / di cenere in fronte lorda i sudori. // Così forgiando la lena che impone patisce e sopporta come Cristo l’icona / ferrando l’anima dall’alba al tramonto.

 

Manu manuzza, crozza cu crozza

iu e Francu parramu, parramu assai

e quannu cunfidu ca i siculani

nun capisciunu u carcariari miu

sardonicu e risulenti iddu canta:

“Me bùffen de la lengua del papà

o de la mama o d’un quaj fradell.

 

La lengua l’è de Diu, rassa de troj!

 

Parlì come magnì, e andì a cagà!”.

 

Mani nelle mani, cranio con cranio / io e Franco parliamo, parliamo assai / e quando confido che i siciliani / non capiscono il mio vernacolare / sardonico e sorridente lui canta: / “Mi insinuano della lingua del papà / o della mamma o d’un qualche fratello. // La lingua è di Dio, razza di troie! //  Parlate come mangiate, e andate a cagare!”.

 

                                          a Michele Gagliano

D’Agira

quantu mi manca u çiauru

dô lardu friutu cu l’ova

e l’alivi niuri

’a sasizza ncudduriata

nâ carta pagghia

arrustuta nê tizzuna dâ conca

un bucali di vinu

– di chiddu niuru chiù ca russu –

tracannatu ’n cannila

e u caudu caudu dê carizzi

palori mastazzola cassateddi

d’agghiuttiri cuomu aria

netta, ussigginata

ma, su’ sulu sulu riorda

alivoti macari dê paisani

 

Su’ marchiati a fuocu nâ peddi

e intra ’a carni

 

Chiddi d’un tiempu

ca nun torna chiù.

 

D’Agira / quanto mi manca il profumo / del lardo fritto con le uova / e le olive nere / la salsiccia avvolta / nella carta paglia / arrostita sui tizzoni del braciere / un boccale di vino / – di quello nero più che rosso – / tracannato d’un fiato / e il caldo caldo delle carezze / parole mostaccioli cassatine / da ingoiare come aria / netta, ossigenata / ma, sono solo ricordi / forse anche dei paesani. // Sono tatuati a fuoco / nella pelle e dentro la carne. // Quelli di un tempo / che non ritorna più.