Che resta da fare di Maurizio Rossi

Nota di lettura di Vincenzo Luciani

 

 

Quella che segue è una lettura che feci giovedì 15 gennaio 2015 alla Casa della Cultura in occasione della presentazione del libro di Maurizio Rossi Che resta da fare, Ed. LietoColle, 2014.

La stessa con qualche modifica fu riproposta il 15 dicembre 2017 nella presentazione dello stesso libro nel quartiere di Torre Spaccata a Roma.

La ripropongo oggi perché consente dei collegamenti con l’ultimo libro di Maurizio Rossi La veglia e il sogno, Edizioni Cofine, Roma, 2019.

Con Maurizio Rossi condivido almeno quattro cose: 1) l’aver frequentato studi classici; 2) l’impegno volontario in associazioni culturali; 3) l’amore per la poesia, per l’ascolto di quella degli altri (vedi Una Casa delle Poesie e il mio “Poeti del Parco”); 4) la passione per la poesia e per la scrittura poetica.

Una cosa che me lo allontana è la figura del medico che in me suscita una spontanea infantile avversione!

 

Tutto ciò premesso, ho affrontato la lettura di Quel che resta, ignorando di proposito, nella prima fase di lettura, la Prefazione di Claudio Porena, ed evidenziando le poesie che mi avevano colpito in tutto o in parte. Eccole:

 

Parole vive p. 28, si apre con: Aratro sono le parole, / dissodano la mente, l’anima, / ne fanno grembo / per le idee, semenza / di saggezza, farina / di sapienza dell’umano cammino. Da questo attacco emerge la fatica dell’arte poetica, nel caso di Maurizio di un’arte poetica che si nutre di pensiero, che sa pazientare (“la poesia richiede soprattutto pazienza” consigliò al giovane Caproni un direttore di una rivista letteraria che gli negò la pubblicazione di una poesia). Solo faticando, lavorando (altro che poesie di getto!) è possibile conseguire il risultato della scoperta di parole vive (fresche come l’acqua di un biblico pozzo, richiamata dall’immagine della donna che chiede di dissetarsi).

È seme p. 29, non mi ha colpito subito, ma mi è piaciuta in una seconda lettura: questa poesia ribadisce i concetti appena enunciati in “Parole vive” fin dall’incipit (gli incipit in Maurizio sono sempre ben meditati ed efficaci): Senza posa scrivono i poeti / le parole raccolgono dall’aria / tracimano dai versi e dalle rime / cercando nuovi cieli / su terre e vecchie strade. Segue la dichiarazione “anch’io sono un poeta / costretto a setacciare dei ricordi / per impastare verità e sogni”… Ma qual è il seme di questa sua poesia? È seme la fatica, la parola / cancellata, l’attrito dei neuroni / in cerca di una forma / o d’una melodia. / Dai versi, fin dentro le vene. Come dire che il “risultato finale” in ogni forma d’arte, dovrebbe richiamare, almeno come intuizione nella mente del fruitore, il percorso fatto dall’Autore, quel tanto di vita che lui ha speso nel fare. Da notare in questa composizione la bella successione di enjambement e la scorrevolezza del verso che si sposa al fluire del pensiero, del ragionamento, entrambi frutto di molto lavoro di limatura.

Queste due poesie, secondo me, sono fondamentali per comprendere la poetica di Maurizio Rossi: l’onestà, in quanto fedeltà al fare poetico; la ricerca di sintesi tra filosofia e poesia, tra scienza e musicalità.

Il cerchio della conoscenza p. 32 (Notevoli i versi “Il vuoto è necessario, va ingoiato / non condito con altre occupazioni” … “Il dubbio che t’assale, ecco il libeccio / che porta al largo, apre l’orizzonte / ai sensi, compagno del cuore”.

Spesso, Rossi si esprime con endecasillabi combinati con settenari, in questo caso anche a un novenario. Altre volte si esprime con versi più brevi, ma sempre armonizzati tra loro, frutto di una assidua cura.

Linguaggi p. 42, di 5 versi, questi: Rivesti d’aritmia la tua balbuzie / mentre la musa ti conduce / nella città del vento e torna suono / la parola, sfuggita all’uso / meccanico, all’abuso. Parole non appulcro – direbbe il padre Dante.

Segreti p. 57: bella l’immagine della rete che “fa l’amore con il mare” e molto bella e densa di pensiero, di metafore e di suono la chiusura della poesia: Così lo spazio gioca con il tempo, / l’infinito si nutre della luce, / l’uomo coglie bagliori / non sfama / l’inquietudine d’immenso. Successione di 2 endecasillabi + settenario + trisillabo – ottonario (questi ultimi due un endecasillabo spezzato e enjambement), annotazione stilistica che vuole evidenziare la tessitura della composizione.

Nel vento p. 64 è dominata dal tema del viaggio e naturalmente dal vento che ridesta dalle pietre suono e senso, / rinascono parole, / ponti tra umano e cielo. // Su tutte, la parola viva. Questa poesia richiama “Parole vive”  a sottolineare che il senso ed il suono rendono viva la parola; ma anche che le parole vive sono quelle che rendono possibile la comunicazione e la compassione tra gli uomini.

In Forme di leggerezza p. 68 c’è l’ossessione e la tensione inappagata di perseguire la leggerezza, senza riuscirvi; ritorna il desiderio di elevarsi, di volare, come l’Icaro del mito: Inseguo forme / di leggerezza, / disperse nubi / nel cielo umano, / suoni di spazio tempo / che fugge via via / da un buco nero, / da un narcisismo / affamato di palpiti di stelle. Il verso breve accompagna a meraviglia questo concitato, quanto vano inseguimento.

Attesa p. 80, si apre con un bellissimo verso C’è sempre un’emozione nell’attesa e prosegue fondendo bene pensiero suono e immagini per concludersi meravigliosamente con la fantasia del volo che ti attende.

Nella parte intitolata “Alchimie” una sorta di rassegna di mestieri, trovo molto bella Il ciabattino p. 87 in cui si contrappone l’inquietudine di chi percorre molte strade (torna il tema del viaggio) con la serenità/superiorità di chi può affermare: Le mie suole non sono / ferite dalle strade (bello l’enjambement) / i miei occhi non vedono quel mondo, / lascio che altri discenda le scale (e questa è musica) / e mi porti consunte / suole  e visioni / dolci ed amare (doppio enjambement negli ultimi due versi e chiasmo nell’ultimo). La maestra p. 95: in essa pensiero e verso si sposano a meraviglia in uno splendido fluire del pensiero di una maestra colta nell’atto di insegnare ai suoi alunni: debbo loro spiegare / il perché del silenzio, / quanto vale l’ascolto / che mette in moto / il pensiero, ingombrante / locomotiva, tra sbuffi di dubbi / e di domande. E così via insegnando. Il medico p. 97, attinge a piene mani direttamente dall’esperienza professionale descritta con parole spietatamente autocritiche, che si condensano in “so capire, ma poco compatire” e nel non accorgersi che il mio paziente / vuole essere guarito / dal sentirsi impaurito / e solo. E al fondo la morte: Lo Stige / tante volte guadato / da chi non ho guarito.

Uno “Strano mestiere” p. 98, quello dell’impiegato di pompe funebri, così a stretto contatto con la morte. E il dottore-poeta si chiede: farò / abitudine alla morte / o a così tanta / ambiguità di pianto?

 

Maurizio Rossi, Che resta da fare, LietoColle, 2014

 

MAURIZIO ROSSI, nato a Roma nel 1952, è medico in pensione. Ama scrivere in lingua e in dialetto romanesco. Collabora con scritti e recensioni al sito poetidelparco.it; è nella redazione della Rivista “Periferie”. È socio de “La Primula”, associazione tra volontari e famiglie di disabili, nella quale partecipa al laboratorio teatrale integrato e agli spettacoli. Ha pubblicato le raccolte di poesie: Dal pozzo al cielo (2008), Tempo di tulipani (2009), Sono aratro le parole (2011), Che resta da fare (2014), La Veglia e il sogno (2019) e, in romanesco, Cercanno leggerezza (2015).

 

 

Pubblicato l’11 febbraio 2019