C’è ’n’aria scapijata di Maurizio Rossi

Recensione di Rosangela Zoppi

Stringendo tra le mani l’ultima silloge poetica di Maurizio Rossi, C’è ’n’aria scapijata, si ha d’acchito l’impressione che il piccolo volume, sicuramente per virtù del titolo e del graziosissimo acquerello della copertina (opera di Sonja Sofia Masiello), voglia sfuggirci di mano per librarsi nell’aria con l’intento di raggiungere una persona che non ci è dato sapere chi sia, ma soltanto supporre. E si ha l’impressione, almeno chi scrive l’ha avuta, che quella persona, dimorata in un luogo imperscrutabile, desideri afferrare quei fogli per stringerli al petto compiaciuta e sorridente, perché di buona parte dei versi che quelle pagine recano impressi sa di essere la musa ispiratrice.

In questo nuovo libro di Maurizio Rossi, suddiviso in cinque sezioni, c’è un po’ di tutto: ci sono i ricordi lontani (“ ‘A latteria”), quelli paterni (“Sete d’estate”, “Er cavallo der sovrano”), quelli legati alla sua professione di medico (“Er medico pazziente”); c’è la pandemia, che per un paio d’anni ci ha sconvolto l’esistenza (“Quarantena 2020”, “Acqua benedetta”); ci sono le considerazioni agrodolci sulla vecchiaia (Dificile er mestiere d’invecchià / pittà li giorni de passi e de parole… – “Se famo vecchi”) e quelle sul male di vivere cittadino che diventa incubo notturno (“Transizzione ecologgica”). 

La sezione del libro che mi ha colpito in modo particolare è quella intitolata “Sognati e strasognati”, dedicata in modo inequivocabile alla persona di cui avevamo avvertito la presenza e che qui si palesa; capiamo così l’importanza che questa persona ha avuto nella vita del poeta, il quale, da quando il nido è rimasto vuoto, continua il suo cammino terreno portando con sé il fardello della solitudine, reso un po’ più lieve dalla dolcezza soave dei ricordi: E mo ’sta casa è vòta e tanto granne; / dall’ottantotto ce stavamo in sette” (“Er nido vòto”). 

Nel leggere i versi di questa sezione del libro mi sono di colpo tornate alla mente le parole che il canonico anglicano della cattedrale di Saint Paul a Londra pronunciò nel 1910, durante il sermone per la morte del re Edoardo VII: «Death is nothing at all… La morte non è proprio niente. Non conta niente. Sono semplicemente entrato nella stanza accanto. Non è successo niente. Ogni cosa rimane esattamente com’era. Io sono sempre io e tu sei sempre tu. La vita che condividevamo in modo tanto affettuoso resta inalterata, invariata. Siamo ancora quel che eravamo l’uno per l’altra. Chiamami con lo stesso nome confidenziale con cui mi chiamavi; parlami nello stesso modo semplice con cui mi parlavi. Non cambiare tono di voce, non assumere un’aria solenne o triste. Continua a ridere delle piccole facezie che ci facevano divertire». 

Con questa nuova silloge, Maurizio Rossi torna al dialetto dopo il primo esperimento del 2015, anno in cui vide la luce Cercanno leggerezza. Entrambe le raccolte hanno a che fare con la leggerezza, che diventa così intento programmatico: la prima raccolta lo dichiara apertamente nel titolo; la seconda lo cela, sempre nel titolo, poiché nell’aria scapijiata c’è tanta leggerezza, che non è però, si badi bene, sinonimo di superficialità, non è negazione della sofferenza o fuga da essa. Tutt’altro. La leggerezza che Maurizio avverte o cerca è la solidale alleata dell’ottimismo e della speranza quando la vita ci sembra buia, quando crediamo di essere deboli e perduti. A pensarci bene, è la leggerezza che ci permette di raggiungere un equilibrio interiore, di apprezzare ciò che ci circonda e di superare anche le imprese più difficili. La leggerezza è ariosità, spensieratezza, spontaneità, sincerità, luminosità, disincanto, sorpresa, attesa, capacità di entusiasmarsi, è il godere delle piccole cose, delle pascoliane myricae. Ed è anche un pizzico di ribellione, ma contenuto, rispettoso; una ribellione che non ha niente a che vedere con quella degli “scapigliati” milanesi (che il termine scapijata potrebbe richiamare alla memoria), gruppo di scrittori come Arrigo Boito, Emilio Praga, Carlo Alberto Pisani Dossi, Iginio Ugo Tarchetti e Giovanni Camerana, che, negli anni Sessanta dell’Ottocento, animati da uno spirito ribelle già manifestatosi nelle altre letterature europee, si scagliarono contro il provincialismo della nostra cultura risorgimentale, contro il romanticismo languido e superficiale, contro il moralismo conservatore dell’Italia appena unificata in nome di una letteratura libera e più vera.

Per quanto riguarda la scelta dialettale di Maurizio va detto che la sua voglia di utilizzare il romanesco, che per lui non è muttersprache, lingua materna, e neppure lingua paterna, poiché i suoi genitori erano entrambi abruzzesi, come strumento poetico può essere interpretata come desiderio di rendere omaggio alla sua città adottiva, alla città che lo ha visto studiare, diventare medico, marito e padre. Il romanesco Maurizio lo ha imparato correttamente stando a contatto con i romani veraci, in particolare con alcuni ebrei, che, occorre ricordarlo, ne sono i veri depositari per almeno un paio di motivi: innanzi tutto perché il primo insediamento ebraico a Roma risale al I secolo a.C., e forse addirittura al secolo precedente; in secondo luogo perché l’istituzione, a partire dalla seconda metà del XVI secolo, del ghetto di Roma, che costrinse la comunità ebraica a vivere in un’area ristretta e chiusa, ha fatto sì che il romanesco di quei parlanti, pur se mescolato a termini e forme linguistiche provenienti dalla loro lingua madre, non venisse influenzato dal toscano, restando fedele alle forme linguistiche meridionali da cui derivava.

Come non elogiare Maurizio per questa sua scelta linguistica? Scrivere nel nostro dialetto oggi non è impresa facile poiché la presenza del Belli è ancora molto ingombrante, sia per quanto riguarda la scrittura diacritica, ancora piuttosto diffusa, sia per il lessico, che non è mai stato aggiornato, sia per l’utilizzo della forma chiusa del sonetto, che i romaneschi si ostinano a considerare composizione poetica per eccellenza. Inoltre, come lo stesso Maurizio spiega nella Nota dell’Autore, l’assorbimento di gergalismi provenienti dalle periferie o dalla malavita, ma anche di forestierismi, e di anglicismi in particolare, ha fortemente nuociuto al romanesco, che si è snaturato divenendo oltremodo volgare. A tale riguardo desidero sottolineare l’inconcepibile trascuratezza degli “addetti ai lavori”, di coloro, cioè, che avrebbero dovuto provvedere al suo aggiornamento e non lo hanno fatto, costringendo così chi vuol “fare poesia” in dialetto a dibattersi nei meandri di una lingua per certi versi vecchia, per altri versi carente.  

Maurizio Rossi va inoltre lodato per l’iter poetico che sta compiendo, un percorso che dalla “poesia dialettale”, legata, cioè, al contesto locale, alla tradizione e al sonetto con la “botta finale”, con il fulmen in clausula, come dicevano i latini, lo sta conducendo verso la poesia “in dialetto”, quella alta, caldeggiata da Pier Paolo Pasolini in una lettera del 13 gennaio 1953 all’amico Luigi Ciceri, nella quale invitava i poeti ad appropriarsi dell’inventum, del “trovato”, cioè del bagaglio lessicale dialettale autentico, usandolo come strumento linguistico ineludibile per arrivare all’inventio, all’“invenzione”, a una maggiore consapevolezza stilistica, alla sintassi personale. 

Nel plaudire a questa nuova raccolta poetica di Maurizio Rossi, invito caldamente l’amico e il poeta a proseguire sul cammino intrapreso, che, senza ombra di dubbio, è quello giusto.

Maurizio Rossi, C’è ’n’aria scapijata, Roma, Edizioni Cofine, 2025

Rosangela Zoppi