“Ma io chi so’, che fo sopra sta tera?…/ e si so’ vivo manco ne so’ certo…” la domanda del poeta è comune a quella di tanti uomini e donne prima e dopo di lui e posta così, in dialetto romanesco, è priva di ogni pesantezza speculativa o di supponenza; la risposta poi, è da poeta, è sintesi e profondità: un lampo “Fo parte d’un disegno origginale/ sto drento a na spruzzata de colore/ confuso ne la scena universale”. Resta il mistero: la grandezza dell’universo, la piccolezza dell’uomo, insieme alla sua singolarità.
Con la pubblicazione antologica postuma “Foja ar vento” Vincenzo Luciani e Achille Serrao hanno reso omaggio alla poesia dialettale di Vincenzo Scarpellino, scomparso al tramonto del XX secolo. “Voce de protesta” secondo la personalissima sua definizione, condivisa da “pochi a ditte…”, tra tutti quelli che“chi te piagne e chi bisboccia,/ chi sputa ‘na sentenza nun richiesta,/ chi se fionna a pulitte la saccoccia…”.
Delle tre sezioni che compongono l’antologia, Momenti, La politica, l’Anticlericalismo, la seconda e la terza sono palesemente di protesta, denunciando le contraddizioni dell’umanità, il soggettivismo esasperato, la crisi economica, il lavoro nero, la decadenza della Chiesa, il potere dell’Opus Dei, il business dell’Anno Santo; ma anche i sonetti della prima sezione, pur nei momenti più intimi e particolari, non perdono occasione di gridare che “er monno è come na tonnara…la morte sguazza immezzo a la cagnara”.
Se è vero – come credo – che il nome segni il destino d’una persona, Vincenzo Scarpellino ha lavorato la pietra -come fa lo scalpellino – l’ha preparata perché altri dopo di lui potessero rifinirla e plasmarla: ha composto il suo lavoro poetico perché fosse continuato e perfezionato da altri poeti anche con differenti dialetti.
Come il compianto Achille Serrao – che ha curato la prefazione – anch’io rifiuto l’operazione di accostamento di questo poeta al Belli, per l’uso del romanesco classico e per la forma-sonetto delle composizioni. Al contrario, in Scarpellino c’è l’immersione nella società attuale, più che lo sguardo, pur acuto, del Belli; si riconosce una partecipazione a quello che racconta anche con toni duri, senza forzare mai la satira più del dovuto, né esasperare i toni; infine il romanesco classico, non usa comunque termini “chiusi” o desueti o eccessivi segni fonetici.
Per il suo impegno poetico e nel sociale, espresso con misura e spesso con modestia; per la sua partecipazione al Centro Romanesco Trilussa e all’Istituto Dialettale Culturale Rugantino; per il suo linguaggio romanesco né antico, né moderno, direi senza tempo, al poeta è stato intitolato il Premio per i dialetti di Roma e del Lazio, che quest’anno giunge alla XIII edizione e che vedrà, nel prossimo mese di ottobre, la cerimonia di premiazione dei vincitori e dei finalisti.
Guardanno Fiume
Sto fiume mentre score indiferente,
giorno pe giorno te se porta via
li sogni, le speranze, l’alegria
spariti appresso a un fiotto de corente.
Lo sguardo ar mare, er core a la sorgente
pe mette ar banno la malinconia,
stenni la mano e co la fantasia
doppo la strigni ma nun ce sta gnente.
Spalanchi l’occhi ar monno e sei portato
a immagginallo liscio e senza croste
come a li tempi che nun l’hai guardato…
Ma poi li smorzi…e t’aritrovi solo
co le domanne senza le risposte…
mentre un gabbiano bianco spicca er volo!
Er tempo e la vita
Gni attimo che score…è già passato!
Lo vòi fermà, ma quello se n’è ito,
guasi sbocciasse un fiore già appassito,
un sogno breve manco incominciato.
Tratanto er tempo scappa e viè contato
dar primo istante quanno ch’è partito
pe la scalata verzo l’infinito
sommanno quello che te sei scordato.
E come er tempo core via la vita
che more, ch’arinasce e poi arimore
co la speranza de la risalita.
Riuscirà l’omo a dasse na pulita,
fra un attimo de gioia e de dolore,
quanno la corza poi sarà fenita?
L’Encicrica (Laborem exercens)
Er Papa cià mannato un ber sermone
ché l’omo, grazziaddio si c’è lavoro,
cià diritto a campà co più decoro
senz’esse na spremuta de limone.
Nun sarebbe da dije chè un marpione
si nun riconoscessimo ‘sto coro
cantato a bocca chiusa sopra all’oro
ammucchiato a gazzimme cor padrone.
Tutto a un botto se sveja e dà lezzione…
quann’era mejo che se stava zitto
pe quanto puzza de conservazzione.
Così, quanno ha sarvato l’apparenze,
cor frutto de lavoro e cor profitto,
te mette in pace tutte le coscenze!
Ar baraccone
Cambi le palle e invece li pupazzi
so’ sempre quelli co la stessa faccia
stanno impalati e cianno na pellaccia
che nu li schiodi manco se t’ammazzi.
Quanno che nu li becchi, te c’incazzi,
ce scappa appresso quarche parolaccia
spece si penzi ch’uno sia un magnaccia
un boja sfruttatore o un cacacazzi.
Na palla matta zara er baraccone
e sbraga tutta quanta l’ammucchiata
de grugni arinchiodati a le portrone.
Ma doppo che la palla è rimbarzata
t’accorgi ch’era solo un’illusione
e l’aritrovi puro ciancicata!
Vincenzo Scarpellino, Foja ar vento, Ed. Cofine, Roma, 2000
VINCENZO SCARPELLINO (Roma 1934-1999), ha svolto attività nel settore assicurativo con incarichi sindacali. Nel 1981 fece parte del «Centro Romanesco Trilussa» e poi del gruppo del «Rugantino» col quale ha collaborato a lungo. È stato cofondatore dell’Istituto Dialettale Culturale Rugantino. Ha pubblicato suoi lavori sui più rappresentativi periodici romani fra cui Romanità, Lazio ieri e oggi, Voce Romana. Nel 1984 ha vinto la IV edizione del «Trofeo Rugantino». Ha pubblicato i libri di poesia in dialetto romanesco Roma contro (1984), Li govenicoli, in coppia con Luciano Luciani (1985). Scarpellino ha collaborato, fin dalla sua nascita, con la rivista Periferie. Si è spento il 20 dicembre 1999, mentre stava per pubblicare Foja ar vento, uscito postumo nel 2000 (Edizioni Cofine, Roma).
Maurizio Rossi 23/8/2023