Un ‘mistico’ della Fabrica

Appunti sull'ultimo libro di Fabio Franzin. Premio Pascoli 2009

di Anna Elisa De Gregorio

Sembra quasi che il dialetto sia un essere vivente, che si faccia a volte esso stesso poesia: colui che lo parla è quasi obbligato da una luce, da un richiamo a scrivere e a far si che questo tesoro linguistico si renda visibile sulla carta facendo testimonianza e memoria di sé stesso. Come se avesse ascoltato la preghiera di Andrea Zanzotto e l’avesse messa in pratica: «Ma ti, vecio parlar, resisti».

È un distendersi dolce quello della personalissima lingua di Franzin (dialetto veneto dell’Opitergino-Mottense con derive nel vicino Friuli): scivola, toglie gli angoli Franzin, rendendo accogliente la scrittura con la semplicità perfetta del faber che conosce il suo mestiere; forse non ci sarà bisogno che in futuro siano «do tre osèi sói magari» (come si prefigura Zanzotto) a dover cantare per conto del “vecio parlar”. La lingua, almeno in questi lembi di terra fra Veneto e Friuli resisterà: mai come in queste zone si scopre tanto interesse per il dialetto: giovani poeti continuano questa “rinnovata” tradizione con risultati egregi.

Fra questi c’è Fabio Franzin (nato nel ’63) che ho avuto modo di conoscere a Barcis, durante la giornata dedicata alla premiazione del concorso "Malattia della Vallata". Ho apprezzato la sua schietta semplicità, la sua cordialità verso di me, “hospes”, apprezzamento che è diventato ammirazione quando ho letto la sua Fabrica (Atelier, Borgomanero, 2009), ultimo lavoro in ordine di tempo, perché Franzin scrive e pubblica poesia da una decina di anni sia in italiano che in dialetto e partecipa attivamente al dibattito poetico.

Il dialetto è la lingua dell’esperienza diretta, della quotidianità, del fare, l’etimo della parola poesia è esattamente questo: esperire, fare. E sicuramente non si può, in questi tempi di ipocrisia perversa, accettare di ascoltare da nessun altro che non sia operaio “vero” parole e poesia di fabbrica. La retorica e l’insincerità stanno in agguato e fanno comizio, chiacchiera. Un altro poeta, Luigi Di Ruscio, nato a Fermo e emigrato a Oslo, ha parlato del lavoro in fabbrica con eguale “verità” e, non a caso, è stato operaio per tutta la vita. Nelle ultime pagine del libro ci sono vari testi tradotti di Di Ruscio, e di altri “poeti-operai”.

Entriamo allora in questa Fabrica, che «A vardarla stando fòra» non sembra neanche così mostruosa…ma è solo un’apparenza ci dice Franzin.
Siamo davanti a un’opera compatta, un poemetto monotematico declinato in “pentameri” (uso questo bel termine più botanico che poetico), che non tengono conto né dei conteggi sillabici, né delle rime, dando al testo un andamento di eloquio sottotono (anche il verso breve con rotture frequenti date da continui enjambements sembrano i respiri disordinati del parlato), con necessarie incursioni verso lemmi stranieri di uso corrente, è diviso in due sezioni (la prima dal titolo Pori operai e la seconda dal titolo Par nome) e da una appendice finale.

 Racconta Franzin che ha scritto questo testo “in quindici giorni di febbrile scrittura”, dopo aver letto La condizione operaia di Simone Weil, saggio del ’36 “avvertendo che nulla era mutato in tre quarti di secolo sulla condizione intima dei lavoratori” …E intima è la qualità che descrive bene questa scrittura, scrittura che guarda dentro, sempre, con insistenza e dolore partecipato.

In tutto il poemetto c’è un accorato autentico sin-patos, che non è rabbia, ma molto di più, è senso di responsabilità, è coscienza che viene dopo l’elaborazione della rabbia. Poesia di testimonianza, poesia civile: queste sono le qualità che “fanno” l’essenza e lo stile del libro.

Rilke stesso dice nel Malte che «…i versi non sono sentimenti, sono esperienze. Per un solo verso si devono vedere città, silenzio, amore, morte, malattia, nascite, sentieri, uccelli. Avere ricordi non basta, bisogna avere la pazienza di perderli e poi ritrovarli, è allora che diventano sguardo e gesto e sangue, gesto senza nome, non più scindibile da noi».

“Pori operai” è quasi una “lamentazio” contenuta, estremamente lucida e poco incline al piangersi addosso. Pur non avendo titoli, ogni pagina è l’approfondimento di un discorso più generale e a pag. 16 (della seconda edizione) troviamo i versi eponimi della sezione, che iniziano infatti con: «Pori operai, ’doperàdhi/ fin a cavarghe via anca/ l’ultimo pél de dignità,/ fin a spolparli dea poca/ autostima che ghe ’à restà»…. Mi pare che non ci sia bisogno di traduzione, qui il dialetto è sicuramente più morbido, ma è comunque vicino alla lingua italiana. La traduzione a fronte è sempre necessaria, ma va guardata con la coda dell’occhio, velocemente in tralice, quasi fosse un peccato.

Bastano venticinque versi per lasciare un segno indelebile sul tema “incidenti sul lavoro”: poche righe sono una lapide unica per infinite ferite e morti. Pagina esemplare raccontata attraverso un parlottare fra sé e sé fatto più di meraviglia che di orrore, dove ancora non c’è la percezione precisa di quello che sta accadendo, proprio com’è nella realtà, quando queste cose accadono: «E chea macia de sangue/ scuro là, tea segadhura,/ come un continente novo/ te ’na carta giografica/»…

La seconda sezione “Par nome” si allarga a un racconto più variegato, si sofferma sulle persone, sulle loro storie, chiama per nome (dando loro una sorta di riconoscimento, di vita propria) i compagni di fabbrica, spesso l’attenzione è rivolta alle donne ed è delicata, rispettosa: «Marta l’à quarantaré àni./ Da vintizhinque ’a grata/ cornise co’a carta de véro,/ el tampon, ’a ghe russa via/ ’a vernise dura dae curve// del ’egno; e ghe ’à restà/ come un segno tee man:/ carezhe che sgrafia, e onge/curte, da òn. I só bèi cavéi/biondi e bocoeósi i ’é ’dèss// un grop de spaghi stopósi/»…Anche il luogo comune del dipendente che ride alla barzelletta del capo è “deformato” dal sentimento poetico così da diventare altro: «…no’ le trova/cussí comiche, zherte po’ le conósse za, però, visto// che ridér no’ costa niènt/»…

Già, apparentemente non costa niente, forse neanche il lavoro in fabbrica è così faticoso, ma definisce e chiude una vita in uno spazio che nessuno, se non chi lo vive, può dire quanto angusto sia. Paradossalmente il tempo sembra dilatarsi all’infinito nell’infinita routine del lavoro, che blocca la mente e impedisce ogni flusso, mettendone in evidenza la tragica insensatezza.

Ho letto anch’io, così come Franzin l’ha scritto, tutto di un fiato questo libro. Non si pensi che ci troviamo davanti a un poeta operaio, niente di più riduttivo e lontano dal vero. Franzin è “solo” un poeta e Fabrica è un libro di poesia dedicato agli operai.

24 luglio 2010