Il sonetto non è un impegno facile, in quanto, appresa la tecnica e sperimentate le infinite formule in cui le tessere sono ricombinabili, bisogna animarlo di contenuti obbiettivi e significativi.
Però, guai a far trapelare lo sforzo del comporlo, guai a non risultare comprensibili per effetto di aggrovigliamenti sintattici nella costruzione, dove il vincolo spietato della forma faccia cadere l’autore come un asino su un sentiero di montagna, per una soma che gli è troppo pesante!
Può sembrare inutile oggi scrivere sonetti, ma sono convinto che l’applicazione di tecniche e di schemi tanto rigidi, sia stata un efficacissimo allenamento per poter comporre le tante poesie in italiano con le quali Porena ha vinto concorsi letterari in giro per l’Italia.
Nascono così le terzine poreniane, con l’intento di fornire una formula espressiva che articoli gli endecasillabi in modo originale.
La trovata, che non è solo un espediente per passare alla cronaca (avendo il nostro dimostrato ampiamente con le sue opere di essere un poeta), prova che c’è sempre qualcosa da inventare, ovviamente a patto di conoscere bene quello che è già stato scoperto, per non riscoprire l’acqua calda. Ma anche di conoscerlo approfonditamente per avere tentato di sperimentarlo in tutti i modi possibili… o quasi.
Sin qui la teoria, da cui, per passare alla sostanza, mi limiterò a evidenziare alcuni passaggi.
La raccolta è organizzata e distribuita in sette capitoli divisi per temi che sono ora concettuali, ora stilistici, ora formali.
Nel primo, Caccia li denti!, la terzina 13 introduce la scelta di un linguaggio popolaresco, di cui rappresenta i modi spicci dell’arguzia plebea: «Amico mio, la vita, sur più bello, / t’imbroja e te fa crede ch’è finita? / E tu arifaje er gesto dell’ombrello!». Altrettanto esplicativa dello stile di vita del romano è la terzina 11 Sott’a un’acqua d’Agosto: «Domani è Feragosto, ma mo piove; / viè giù l’ira de Dio, ma nun me sposto: / aspetto che la nuvola se move».
In questo modo Porena si collega alla schiera degli onesti fabbricieri del monumento a Roma iniziato da Belli e fortunatamente ancora non concluso.
Il capitolo prosegue in un’ottica di iperrealismo astratto, che non sarà abbandonata nel resto dell’opera. Non esente da cinismo come in Pippo, la terzina 10: «Pippo ciaveva er vanto d’avé un pollo, / e je voleva bene, bene tanto / che solo lui je vorze tirà er collo».
Dei saggi del suo iperrealismo astratto, che lo avvicinano al migliore Trilussa e a Dell’Arco. 23 Cinzia ignuda: «Le notti de ’sto mese, Cinzia [la luna], ignuda, / se scopre fra millanta luci accese: / perché ’gnuda? Perché ste notti suda». 21 Mimetismo animale: «Inverno. Dice all’oca er lepre Pippo: / “Niscosto fra la neve, io spaccio coca”, e lei: “Io fra le piume me la pippo”». 20 Un vento dispettoso: «Er vento gira in piazza e ce s’annoja; / così, pe fà un dispetto a la ramazza, / scarnicchia un pioppo foja doppo foja». E la 17 Zuppa de scojo: «Zuppa de scojo bella pizzicante: / scorfeno, porpo, gamberi, ajo e ojo… / Ma fre-sca si ’sto scojo era pesante!».
Nel secondo capitolo l’autore si fa onirico, metaforico, filosofico nel voler raccontare una realtà parallela. Migliore? Ecco la terzina 42 Vojo inzognà: «Me vojo inzognà un monno de balocchi, / un monno indove tutto è più gioconno / e indove la bontà schizza dall’occhi; // indove t’inginocchi p’èsse uguale / a quanno stanno in piedi li marmocchi, / e indove nun se fa gnente de male; // indove cianno l’ale tutti l’ommini / pe uscì da la mollaccia tal’e quale / e nun servì nissuno che li dommini». Si narra di un mondo felice, da sogno, che l’ironia del poeta popola di controsensi arguti. 4 Er buciafratte: «Un buciafratte sòrte tutt’a un botto / da un muro de smerardo, schizza e sbatte / su un cèl de piombo e casca a boccasotto». 8 Via Nomentana: «A mollo a ’na funtana d’acqua Marcia / ce se viè a sciacquettà Via Nomentana / li piedi stanchi e gonfi pe la marcia». 15 Drent’ar fosso: «Un cèlo tutto rosso che se tuffa / fra un cra-cra de ranocchie drent’ar fosso: / inzino ar giorno appresso dorme auffa». Spunta fuori un’aria di antico stupore e di odore di cose buone dai versi di 16 Garofoline bianche: «Aria primaverile imbarzimata: / garofoline bianche ner cortile / sprofumeno de prima matinata». Ma c’è anche una confessione nel titolo 44 Più narcise de me: «Un’acqua senza crespe ne la fonte: / una dozzina d’api e tante vespe / se specchieno, pe beve, fronte a fronte». Diventa elegia in 40 Sapori antichi: «Er sapore più antico: pane e sale. / Si poi ce metti l’ojo e spacchi un fico, / te magnerai quarcosa de speciale».
Ma si parla anche d’amore in 45 Baci su baci: «Grugnetto dilicato e color panna, / si te do in bocca un còre innammorato, / ridamme in bocca un Claudio ama Giovanna. // Si tu me dài un Giovanna t’ama tanto, / io in bocca t’aridò un soffio de manna / che dice: “Te starò ’gnisempre accanto!” // Si in bocca te ce canto un ritornello, / tu méttece le note, ch’io m’incanto / e te do un antro bacio scrocchiarello». Non tralascia di fare filosofia con 23 Me dichi un prospero!!!: «Pe ritrovà se stesso annò a Carcutta, / pe vive com’un povero. Cià messo / vent’anni pe tornà a la pastasciutta!». 24 Natura cerca indietro quer c’ha perzo: «È annato a fasse un viaggio attorno ar monno, / e sai perché? Perché – cià detto un saggio – / da ciuco nun giocava a girotonno». E 25 Marcosfila: «Dice: “Vado in Austraja”, e ce saluta. / “Nun torno più: sò stufo de st’Itaja”. / Ma er busilli era l’anima fottuta».
Il capitolo Un bene grosso affronta con originale coraggio il tema dell’amicizia e dell’affetto tra fratelli. Un raro argomento autobiografico svolto con onestà e franchezza.
Il poeta espone i suoi sentimenti in 2 Fratelli: «Avessimo ’na vorta fatto a botte! / Quarche dispetto, sì, che vòi che importa: / tanto l’ossa comunque se sò rotte». 6 Un bene grosso: «Pe monti, prati, valli, stagni e mari, / le corze matte come du’ cavalli / o – pe dì mejo – come du’ somari, // coll’occhi sempre chiari de chi ha visti / eppoi ignottiti rospi tosti e amari, / buriane, tiritosti e acciaccapisti. // Pochi li boni acquisti, ma de certo un bene c’è: che noi, poveri cristi, / semo fratelli, io Claudio e lui Robberto».
8 Erimo du’ marmocchi… adesso è uguale: «Erimo du’ marmocchi ammalappena / su ’na muchè de breccole e balocchi, / su un letto de cuscini e de verbena; // giocamio a canofiena da un soffitto / de lampadine e nuvole, e pe cena / se pappavamo fiori e pane fritto. // Si lui giocava zitto, io lo seguivo, / e lui me conzolava s’io ero guitto. / Gnente è cambiato: tutto resta vivo».
Nel terzo capitolo Porena ci porta anche fuori Roma nel poemetto Girotonno ar paese, in cui di nuovo ci guida per mano nell’emozione dei ricordi autobiografici. La bella cittadina c’è, senza apparirvi in nessuno dei suoi sfondi monumentali. Il gioco non cita che le sue sensazioni, vissute fuori dalle cartoline per turisti. La sincerità si rivela una costante dell’opera: è il proprio vissuto che viene esposto senza ostentazioni.
1 Sogno er paese: «’Gni tanto sogno Ariccia, indó ho abbitato: / de botto la visione se scapriccia, / e m’aritrovo a scrive sopr’a un prato».
3 Girotonno ar paese: «Stasera tutti a Ariccia a fà bisboccia: / cacio-e-pepe, carciofoli, sarziccia, / porchetta e un bon vinello che t’incoccia, // da beve goccia a goccia fino in fonno, / finché nun sarà vòta la capoccia / e ce incomincerà a fà er girotonno. // E pijeremo sonno fra mijardi / de stelle blu – cascasse pure er monno! – / ar civico 38 in Garibbardi». Dove (terzina 4) «…campavo de ’na luna mozzafiato: // un fiume imbrillantato entrava drento, / e la stanzetta mia pareva un prato / luccichente de boccoli d’argento». In questo breve poema luna aricina (ricordo di Diana?) è quasi un’altra protagonista. I momenti di solitudine sono magistralmente espressi in 10 Cala la notte: nella piazza tetra passa una Barbara prevertiana «…in giro du’ piccioni e ’na regazza / co un cappottino blu e ’na sciarpa bianca… l’antimosfera attorno è fredda e scura». Ma Porena è un inguaribile ottimista e riscatta la tristezza in 11 Vince er verde: «…Me pijo ’na paura da nun crede, / ma subbito un socché me rassicura: / un trillo m’aricorda che sto a sede. // E ’na sorta de fede m’arifiata: / sett’anni a Ariccia agnede com’agnede, / doveva annà ner modo com’è annata. // La pace aritrovata nun se perde: / co tutto che la notte è incatramata, / ’no schizzo de speranza, e vince er verde».
Ricomincia il frullo dell’ironia, figlia dell’osservazione, in Inzalata de scojo. 3: «’No scojo, e le patelle sò un mijone: / appena t’avvicini pe vedelle, / te senteno e te sbatteno er portone. // Lo sanno che sò bone: è propio questo, / pe nun finì connite cor limone, / che le fa chiude appena je fai un gesto. // Ma io faccio più lesto e, cor palosso, / le stacco e ciariempio quasi un cesto, / co quarche pommidoro, in mezzo, rosso».
Un lirismo hemingueiano: 6 Er pescatore: «Er pescatore aspetta er giorno doppo, / appennicato drent’a ’na barchetta: / cavalloni lo porteno ar galoppo».
Con Sfreccia ch’è verde si torna all’osservazione ironico-sociale. 1 Sfreccia ch’è verde!: «Aspetto che da rosso se fa verde. / Du’ machine, tratanto, a più nun posso, / me sfrecceno davanti: guai a chi perde!». Ma non manca una visione del dramma: 4 Questione de seconni: «“Tranquillo! Sto ar volante: parla pure!” / E s’aritrova in meno d’un istante / a piagne un orzacchiotto e du’ crature»; 5 L’hai messa la cintura?: «“L’hai messa la cintura? Daje, amore!” / Er tempo de dì Daje!, e ’na cratura, / co la pupazza ancora in braccio, mòre»; 7 Nun più studenti: angeli: «’Na sera in discoteca, sbronzi, cotti: / su cinque corpi er sangue ce se spreca / e sull’asfarto quell’occhiali rotti».
Poi torna il gioco della critica sociale e benevola, alla romana. 13 Case mobbili: «Portabbagaji pieno e portapacchi. / Vanno in vacanza Pippo, Teta, Neno, / cane, canotto e sei tovaje a scacchi. // E t’arzeno li tacchi: via in vacanza! / Er tempo de partì, che già sò stracchi, / e chi se lagna e chi se spaparanza: // Neno cià mar de panza, er cane sfiata, / scureggia pure Pippo, lei lo scanza/ e er viaggio ignotte tutta la gior-nata».
Significativa la 16 Preghiera on the road: «Te prego su du’ rote, quattro o otto, / co pantomime, danze, verzi e note, / de métteme ar sicuro da ’gni botto; // si casco a boccasotto sull’asfarto, / si sbatto la capoccia sur cruscotto, / si sbarzo dar sellino e faccio un sarto, // si me rompo lo smarto de li denti, / si mòro, famme posto tant’in arto / da pilotà le stelle luccichenti!».
Suite riepiloga i temi già sviluppati, con riprese anche testuali di versi funzionali alla liquidazione verso la cadenza finale, secondo una formula appresa nello studio della musica, a riprova della interdisciplinarità nei procedimenti compositivi, affine al passaggio dei lemmi da un linguaggio ad un altro. Vedere 1 Luna: «La luna, farce in spalla, m’accompagna / e me guarda la schina ne le marce / che faccio, solo, in mezzo alla campagna. // In faccia mo ’na lagna mo un soriso, / se famo quattro chiacchiere e, a pedagna, / s’ariva locchi locchi a un Campoeliso. // Qui sopra, all’improviso, sòrte un mago, / custode de li sogni in paradiso, / che ciarimanna giù co un fil de spago…». Oppure 13 Finestra: «…“Voi, corvi appollajati su li coppi; / tu, vento che qui fòri sbuffi e sfiati; / e io che sto a guardà: semo già in troppi!” // Se senteno du’ schioppi de fucile: / lungo er viale tremeno li pioppi, / erutta de piccioni er campanile. // M’affaccio sur cortile: ’na regazza / spasseggia su li sgoccioli d’Aprile, / co le calosce a mollo ne la guazza…».
Epilogo rappresenta il commiato, il congedo, la sirma, la strofe finale, che, in un’opera tanto significativa per finezza di ricerca e di soluzioni espressive, non poteva certo mancare, come non poteva mancare il guizzo dell’arguzia in un poeta così pieno di sense of humour. Si recupera così la terzina 33 della prima parte: La gloria: «Te penzi che la gloria se guadagna / a furia de studià? Ma và a cicoria! / La gloria è de chi dorme, beve e magna!». Mentre si afferma nell’Epilogo: «Lettori, tocca a voi: ve lascio l’orme! / E chi vò un po’ de gloria, o prima o poi, / la troverà si magna, beve e dorme».
Questa opera presenta una tale complessità di temi, di soluzioni, di pungoli intellettuali, tanto in chiaro, che in crittato per gli esperti, da risultare novità, non solo nel panorama dialettale romano, ma anche nella corrente letteratura in lingua.
Infine, aspetto che non guasta, l’opera mantiene ovunque una piacevolezza di lettura, una leggerezza di tratto, un’intrinseca poeticità che è garbo e finezza di pensiero, che la rendono gradevole anche ai meno avvezzi ai libri di poesia. Non c’è un momento che ceda alla banalità, lo spirito di osservazione del poeta riesce a cogliere al di sotto delle cose comuni i segreti legami logici ed illogici, che ce le fanno sembrare diverse da come sempre ce l’eravamo immaginate. Le scopriamo nuove e con stupore.
Paolo Procaccini
xxxiv.
Pippo
Pippo ciaveva er vanto d’avé un pollo,
e je voleva bene, bene tanto
che solo lui je vorze tirà er collo.
sab. 14/08/2010
Pippo. Pippo aveva il vanto di avere un pollo, e gli voleva bene, bene tanto che solo lui volle tirargli il collo.
xxxv.
Sott’a un’acqua d’Agosto
Domani è Feragosto, ma mo piove;
viè giù l’ira de Dio, ma nun me sposto:
aspetto che la nuvola se move.
sab. 14/08/2010
Sotto un’acqua d’Agosto. Domani è Ferragosto, ma adesso piove; viene giù l’ira di Dio, ma non mi sposto: aspetto che la nuvola si muove (che sia la nuvola a muoversi).
Cip
Io ciò un canario tanto scordarello
che spess’e volentieri è necessario
sostituije er cippe ner cervello.
sab. 14/08/2010
Cip. Io ho un canarino tanto smemorato che è spesso necessario sostituirgli il cip [anfibologia o doppio senso: ‘microprocessore’ & ‘cinguettio’] nel cervello.
Caccia li denti!
Amico mio, la vita, sur più bello,
t’imbroja e te fa crede ch’è finita?
E tu arifaje er gesto dell’ombrello!
dom. 15 e giov. 18/08/2010
Tira fuori i denti!. Amico mio, la vita, sul più bello, ti imbroglia (ti inganna) e ti fa credere che sia finita? E tu rifalle il gesto dell’ombrello (rimandala a quel paese)!
ccxxix.
Ginìa de scocciatori
Poeti romaneschi e un vizzio antico:
nun ponno che nun legge, freschi freschi,
li verzi loro oribbili a ogn’amico.
mart. 24/08/2010 e merc. 13/07/2011
Genìa di seccatori. Poeti romaneschi e un vizio antico: non possono che leggere ad ogni amico i loro versi orribili appena sfornati.
xxxi.
Du’ occhietti ciuchi
La stanza è tutta piena de balocchi:
du’ occhietti ciuchi aspetteno la cena
e brilleno. Balocchi sò quell’occhi.
sab. 14/08/2010
Due occhietti piccoli. La stanza è tutta piena di balocchi: due occhietti piccoli aspettano la cena e brillano. Balocchi sono quegli occhi.
cxvii-cxix.
Effimero, ma bello
Infiorata de Spello o de Genzano:
tu penza, si passasse un venticello,
quante Madonne senza palandrano!
Ma nun te pare strano com’un fiore,
posato accanto a un fiore da ’na mano,
rieschi a fà sti giochi de colore:
papaveri un rosore, rose un rosa,
violette un viola…? Un giorno, e tutto mòre!
Ma nun s’è vista mai più bella cosa.
ven. 20/08/2010
Effimero, ma bello. Infiorata di Spello o di Genzano: tu pensa, se passasse un venticello, quante Madonne [resterebbero] senza mantello! Ma non ti sembra strano come un fiore, posato accanto a un fiore da una mano, riesca a fare questi giochi di colore: papaveri un rossore, rose un rosa, violette un viola…? Un giorno, e tutto muore! Ma non si è vista mai più bella cosa.
cdlxxii-cdlxxiv.
Occhi de geco
’Na luna piena spiomba su la spiaggia
e, a mollo ner silenzio de ’na tomba,
stigne, come ’na goccia d’acqua raggia,
la notte blu. Mannaggia la pupazza:
come posso dormì si er mare sgaggia
’sto nuvolo de stelle che ce sguazza!?
M’affaccio a ’na terazza sopr’ar mare,
sorzeggio latte e menta da una tazza
e me figuro… quello che me pare.
sab. 18/06/2011
Occhi di geco. Una luna piena spiomba sulla spiaggia e, a bagno nel silenzio di una tomba, stinge, come una goccia d’acqua raggia, la notte blu. Mannaggia la miseria: come posso dormire se il mare sfoggia questo nugolo di stelle che ci sguazza!? Mi affaccio a una terrazza sopra il mare, sorseggio latte e menta da una tazza e mi immagino… quello che mi pare.