Fare un ritratto in color seppia dopo anni di esperienze colorate e sempre più adulte, scostare la cenere fredda degli anni dall’antico focolare e vedervi ancora una brace ardente di ricordi, riconoscervi un bambino che scorrazza felice e curioso negli spazi ancora sopravviventi di una civiltà in declino. Sarà capitato a molti, scartabellando fotografie e carte ingiallite, soffiando via la polvere dal vecchio album di famiglia e sorprendendosi a guardare con occhi nuovi immagini che col tempo erano diventate banali.
È successo anche ad un cacciatore di memorie come Raffaele Cera, preside in pensione e già da tempo impegnato nel recupero sistematico di cose e persone che hanno nutrito la sua vita e quella di molti suoi coetanei. Dopo aver dato alle stampe attenti resoconti di viaggio e aver delineato i suoi debiti formativi con figure di maestri e di amici, Cera è approdato ad un più disteso e intimo amarcord, diventando testimone e narratore di un suo imprescindibile romanzo di formazione agganciato direttamente all’infanzia. Questo suo libro, L’innocenza ritrovata (Foggia, Edizioni del Rosone, 2012, pp. 175, € 13), si configura come una vera e propria ricostruzione musiva, sostenuta da flashback abbinati affettuosamente agli anni Quaranta, quando il Nostro, bambino di pochi anni, si accingeva alle scoperte fondamentali del mondo.
Non si trattava, in verità, di una realtà clamorosa, giacché l’ambiente a disposizione era quello del centro garganico di San Marco in Lamis, che all’epoca conservava le caratteristiche del tipico borgo a prevalente economia agropastorale. Bastò, però, questo mondo e lo sfondo inquietante di una guerra lontana (guardata come un crudele spettacolo durante i tragici bombardamenti di Foggia dell’estate del ’43) a plasmare sensi e sentimenti del futuro memorialista, lasciandogli dentro tutta la ricchezza di scoperte semplici quanto mirabili e il sapore di una realtà, che pur umile, offriva alle generazioni di una volta nutrienti insegnamenti intellettuali e morali.
Rivivono così le strade, le case, le chiese, le botteghe, gli spazi singolari, le persone anche eccentriche che definivano e popolavano quel mondo ritrovato. Nel quartiere d’origine, quello di Santa Chiara, Cera vede ancora sgusciare tra un vicolo e l’altro i compagni d’infanzia, accompagnandosi a loro nella caccia alle api o nel cimento dell’ingresso nel buio di grotte terrificanti. Un altro tassello ed ecco i bambini ritornati obbedienti seguire i consigli di don Michele Giuliani (alias ‘Panecotte’), parroco influente in un contesto in cui il contatto con la chiesa poteva significare ancora molto. Ed era il sentimento religioso che informava anche la processione del giovedì santo, quando per le vie del paese sfilavano due sole fracchie (a differenza del numeroso corteo di oggi, spostato al venerdì successivo), a sottolineare la semplicità e la rude parsimonia di una volta. Erano tempi difficili, resi ancora più amari dalla guerra, in cui però non si sacrificava il mito dell’abbondanza, reso concreto con l’uccisione rituale del maiale, che metteva d’accordo un po’ tutte le classi sociali. E c’era spazio anche per lo sport, con il calcio forte di un’agguerrita squadra che doveva accontentarsi di uno spiazzo nel centro del paese usato come improbabile campo di gioco. Calcio non solo come divertimento, ma come altra scuola in cui apprendere i rudimenti della vita.
Esperienze, intuizioni, anticipazioni, forse, di un destino che avrebbe conservato costantemente accese le luci sul passato, senza dimenticare in nessun momento l’impegno in un tempo tanto più complesso e proteiforme. Quell’antico pane sfornato in un anonimo vicolo ha nutrito, in realtà, il futuro uomo e professionista, senza poter dimenticare il senso profondo di una crescita e di un continuo arricchimento interiore.
Sergio D’Amaro
2 dicembre 2012