Su La Cruedda di Vincenzo Luciani

Pensieri sotto traccia di Anna De Simone

 “La Cruedda” di Vincenzo Luciani ha la struttura di un diario in versi. Versi in libertà, nel senso che ci restituiscono immagini, atmosfere, dolori, sorrisi di un passato ormai lontanissimo dalle nostre vite ordinate, dal nostro benessere, dai nostri desideri.

Luciani evoca senza darlo a vedere un mondo di oggetti, case, persone, stati d’animo. Bella la poesia di apertura, "A Grotte u Tasse", soprattutto nella terzina finale.

Le traduzioni in italiano secondo me non rendono giustizia alle poesie di questa raccolta, molto più suggestiva in dialetto. Quel “vuje nun sapite addove sta u cele” è incomparabilmente più felice della traduzione corretta ma vagamente didascalica “voi non sapete dove sta il cielo”.

Bella anche "Trèmete", con quegli orizzonti che si allargano sempre più fino ad abbracciare un mondo. Felicissima anche in italiano l’immagine “pàrene varche de murge pàrene… ” (“sembrano / barche di roccia sembrano…”).

Ho letto segnandomi con la matita i versi o le immagini secondo me più felici.
Ne è venuto fuori un florilegio suggestivo, ora fiabesco (“Ji cammine e cammine……”; “ nd’a dd’ucchie virde u ninne ce recunzole”: E cammino e cammino…), ora fortemente evocativo con quell’immagine della cruedda che ritorna sempre, così come gli occhi verdi di un bambino.

Ritrae bene l’umiltà dell’io narrante la lirica “Poeta di giorni feriali”: un poeta che ama defilarsi, Luciani, scrivere sotto traccia.

Ma Luciani è poeta capace di tratteggiare il sole al tramonto (tema difficilissimo perché usurato) in due, tre versi: “A Pantane e ntu mare / ce cale: / rusce e nire, / nu ciapugne (A Pantano e nel mare / cala: / rosso e nero, / scarabocchio).

Particolarmente felici mi sono parse la poesia che dà il titolo al libro su cui già avevo scritto qualcosa e I portahalle. Quelle arance rubate a Rodi, in un giardino riempiono la pagina coi loro colori e col loro profumo. Zagare che stordivano nel giardino di mare davanti a Rodi. Struggente l’immagine di quel padre che rubava le arance.

Mi fermo. Tante altre cose ci sarebbero da dire, sul passato così presente e vivo in questo libro di memorie, memorie di luoghi e di persone amate. Un libro che si chiude su un cantafavole che ammaliava i bambini con le sue storie, poi si calava il mantello sulla testa e se ne andava. Proprio come fa il poeta, che ci lascia ansiosi di sempre nuove storie.

A. D. S.