La prima opera di poesia (Sofegón carogna, Il Ponte del Sale, Rovigo, 2011) di Maurizio Casagrande ha preso forma, consistenza e sicurezza a margine di un lungo lavoro di scavo nei testi di decine di poeti odierni, di frequentazione critica dei medesimi, dell’ambiente in cui operano, tesi a farne emergere la sostanza poetica e a individuarne e tracciarne i possibili percorsi nel variegato panorama attuale.
Lavoro, questo, approdato alla somma de In un gorgo di fedeltà (che qui, come vedremo, finisce per trovare un proprio distillato poetico) ma legato anche alla pratica quotidiana dell’insegnamento nella scuola secondaria, dove il metodico, personalissimo assedio, cui l’autore sottopone il materiale letterario, ha prodotto un’inedita mole di questionari e suggerimenti d’indagine critica.
Maestro nello stabilire confronti, nell’individuare e mettere in risalto analogie e differenze, nel momento creativo particolare egli s’è allontanato dallo spazio gremito, dove s’incontrano, si contrappongono e s’intrecciano le voci poetiche e critiche, alla ricerca di un sunyata dove potersi ascoltare meglio e tentare una ricerca di sé, portandosi degli altri soltanto tratti fortemente interiorizzati.
Il proprio dire si delinea a partire dall’idea di una ricerca per indizi di quanto ha conosciuto la forza del profondo e prende forma e consistenza lungo una risalita al chiaro (adombrata nell’immagine dell’andar per trifole del titolo provvisorio) attuata, fin quando possibile, attraverso una deminutio del mezzo. Nondimeno il poeta esordisce nella veste piú aulica e ufficiale dell’appello al lettore, con intento selettivo, elencando pochi tratti di rilevanza morale e condotta abituale, bastevoli a escludere parecchi dalla possibilità d’intesa. Egli adotta il registro basso, il tono leggero e quasi canzonatorio, la rima baciata, pervenendo per questa via a un capovolgimento della figura classica con effetto satirico.
Qui sono già visibili gli stilemi principali del libro, che operano in scioltezza nelle due ballate anomale a seguire: una narrativa, intesa a disfarsi del narcisismo spinto di molti poeti; l’altra in forma d’apostrofe sui mezzi, gli ambienti e i soggetti grazie ai quali il narcisismo si esercita, trovando eco e risonanza. Predominano gli attributi caricaturali, gli ipocorismi ambigui, le paronomasie, le rime a breve, il ritmo della filastrocca, interpunto da certe clausole bisillabiche e comunque corte in forma interiettiva, imprecante o vagamente apotropaica, con l’effetto di ridurre la polemica alle strutture del testo e di ribaltare in consenso emotivo la scontrosità dei toni.
Esorcizzati i fantasmi d’un mondo artefatto e ipocrita, il poeta convoca e accampa nel vuoto vitale cosí realizzato un’umanità autentica, pur nell’emarginazione, di manovali sfruttati, di individui disadattati, di beoni e bestemmiatori. Il linguaggio non muta, ribaltando cosí la propria funzione, che, da antagonistica e consapevolmente reprensibile, diventa dolorosamente realistica.
Cruciale, in questo senso, appare A on marinante de tera, che pone al centro il valore positivo della “tenacia nel resistere” di una coppia, capace di aggregare «On s-ciapo / de mati ca crede ’nte’ l poco / ca i fa / …’l catarse torno ’na toea / sensa asasse rosegare el figà / …’a pasiensa de ’esare o scrivare / pa calcossa ca no ghin ciava a nissún» («Uno sparuto gruppo / di folli convinti del poco / che riescono a fare / … il trovarsi attorno a una tavola / senza lasciarsi avvelenare il sangue / … la pazienza di leggere o scrivere / per una causa che nessuno ha piú a cuore») in cambio di nulla.
All’indifferenza dei piú e all’acredine di molti il poeta si dice certo che non potrà toccare del bene. È la disarmata conclusione dei buoni, che dismette anche le armi della polemica per una considerazione amara.
Ne I bai l’amarezza è estesa al male di vivere, ma come se la vita perduta si desse in un fastidio dell’aria per degli insetti che la popolano come prodotti dalla stessa terra.
Cofà on ciareto è un canto d’amore toccante per la madre in una corona di similitudini della consunzione, di cui il figlio si sente corresponsabile oltre il destino, e prelude agli ultimi del libro, canti del dolore per il distacco dalle persone care (A Enio, ca ’l n’à asài; On xovane e on vecio a discorare) e della solitudine (El luni; Bonóra; De note dal me terasso; Xaghéto) introdotti dai quattro brevi versi di Omeni, quasi un’epigrafe, che sembra voler ridurre a pura ostensione il topos riguardante la vanità dell’esistenza.
Centro ideale e poetico di questo gruppo di canti è On xovane e on vecio a discorare, che l’autore traduce con Chiacchierata tra un giovane e un anziano. La chiacchierata è virtuale perché il vecchio, il maestro, il caro amico è ormai morto e di lui sono ricordati il lungo parlare di poesia, di dialetti – con i quali “si può dire tutto” – dei grandi autori, ma anche la saggezza e l’ottimismo, che ispiravano ammirazione per un uomo della sua età e dalla vita travagliata. Chi allora ha ascoltato e non ha potuto o saputo interloquire adesso sente il bisogno di confessare sí, le difficoltà di una diversa indole – che denuncia inoltre il progressivo corrompersi del dialetto – ma di ammettere anche «… ’sta freve de dire / ca m’inpisa ogni dí» («…questa febbre di parole / che mi accende ogni giorno»).
A questo punto la lingua ha consumato in se stessa gli umori, pur risolti in poesia, degli esordi, mantenendo il suo carattere d’ombra; lo stile si è fatto ancora piú essenziale ed intenso: Enio muore «Cofà on oseo ’nte on gemo de spinari / on poro vecio in crose, on bon ladron / serà in gheba, in preson, ciara acoa e gnà on balcon». («Come un uccello in un groviglio di rovi / un povero vecchio in croce, un buon ladrone / chiuso in gabbia, in prigione, poca acqua e nemmeno un balcone»).
In El luni in cui «Gnente inscominsia / …gnente va in cao» («Nulla che abbia inizio / …nulla che abbia fine») il poeta si estranea dal bordèo de jente in una nicchia di sonno, come per non voler riempire d’altro quotidiano il tempo che avanza.
Metafora alta di una veglia di puro andare stranío in un paesaggio quasi onirico è Bonóra, un’alba tra le valli di Tolle, reso riconoscibile e caro come in una visione dal fondo con densi tocchi di colore.
Infine, in De note, dal me terasso, ritornano i fantasmi della solitudine col loro linguaggio umorale chiuso dentro come in uno scrigno ma questa volta rischiarati da una fuga col desiderio nel grande e generoso mito del Messico e da un indimenticabile sentiero di stelle.
Ma ecco, sul finire, il liquore proveniente dal Gorgo scorrere nelle note incise durante il lungo cercare di sé negli altri: la Rovigo eletta ed estranea, vissuta nella realtà, e insieme nella verità della poesia già divenuta tradizione grazie alla cura di un sodalizio capace di riscoprire e di riportare alle sue radici l’opera omonima di Herbert; vi s’intravedono gli ambienti e gli amici intenti a declinare la grandezza restituendo ai tempi e ai luoghi le giuste dimensioni di una storia recente e antica; i segni e i sensi di un’appartenenza colti entro i labili confini della nebbia. Una voce, questa, che, quasi a smentire quella tematica del groviglio, si risolve pienamente in levità di canto.
Luigi Bressan
1 ottobre 2011