Ponendo programmaticamente a tema, già a partire dal titolo, la stessa scrittura poetica in dialetto, il terreno e il tempo di una sua possibilità, in Provi di lingua matri, Edizioni Novecento 2019, Maria Gabriella Canfarelli si confronta per la prima volta con la materia oscura di uno specchio che, non senza ostinazione, e lungamente, è rimasto nel buio, nel freddo coprente di un rifiuto: la poetessa catanese, autrice di diversi libri in lingua italiana, oltre che stimata voce critica di riviste di letteratura come La terrazza e Periferie, sembra avvertire che in quel buio si apre ora spazio per immergere le mani, per tentare di recuperare parole annegate e, finalmente, volere e sapere guardarle, capovolgendo lo sguardo che le aveva volute cancellare, ritraendo il non-gesto, il diniego di prenderle «dalla bocca insistente» della madre.
La parola dialettale, quella parola che talora «scappa/ dalla bocca» come liberata dopo una lunga cattività, la parola avuta insieme al latte materno e, più tardi, «pane e companatico» sentiti come irricevibili e, pertanto, oggetto di reiterato rifiuto, è parola «scognita» – incognita, nell’autotraduzione dell’autrice – ed è, per quella gravidanza plurima che non senza ragione sempre si attribuisce alla parola dialettale, paradossalmente intima ed estranea al tempo stesso. E soprattutto, all’improvviso ora appare, sorprendentemente, ossimoricamente, «bella».
Le sfumature semantiche del termine siciliano «scognito», infatti, compongono una nube di senso ben più minacciosa di una mera variabile matematica da decifrare: scognita è, per esempio, l’aria di un locale in cui le persone per bene si guarderebbero dall’entrare, infrequentabile; scognito è il quartiere dalla brutta fama, l’assai poco raccomandabile alveare di strade e viuzze nel quale ci si addentra riluttanti, guardinghi, intimoriti. La bellezza pare attenere, dunque, anche alla scoperta di un mondo altro che sfolgora di luce propria dietro le apparenze, i luoghi comuni, i veti e le automutilazioni, e che si svela all’apertura dei sensi, e prima ancora del cuore, a un ascolto non mediato dal pregiudizio.
Non ritengo di dover temere smentite affermando che, trasversalmente alle diverse realtà regionali italiane, nel gioco di rovesci (e manrovesci!) tra le generazioni di un passato recente, l’uso e il divieto del dialetto sono stati spesso centro di scontro, rima di frattura e punto di svolta, rimbalzando la parola della lingua materna come carbone ardente tra le mani di padri e di figli, tra le bocche di madri e di figlie, rimpallando il discredito di pronunciarla e la colpa di non avere alternative. In un estremo, per la scelta di un mondo adulto colto che semplicemente lo ha tenuto fuori dalla portata dei bambini, si impediva drasticamente l’accesso a un intero patrimonio latamente culturale, non solo linguistico; nell’altro, per la sopraffazione della lingua dell’unità nazionale subita dall’universo poco o per nulla scolarizzato costituito da coloro che – genitori, nonni – non usando e non comprendendo bene la lingua della nuova società plasmata dalla comunicazione dei media di massa, nella relazione con i più giovani si ponevano ambiguamente, tra scherno, sospetto e tuttavia un certo, malcelato, timore reverenziale. È stato, in un caso o nell’altro e lungo il continuum tra queste polarità ideali, traccia, solco e demarcazione di una distanza, l’approfondirsi di uno iato comunicativo e culturale il cui riattraversamento ha richiesto – e, come appare evidente, richiede tuttora – presa di coscienza, cambio di prospettiva, assunzione di responsabilità, fino al delinearsi di una scelta autenticamente avvertita: d’uso, di studio, d’arte.
Maria Gabriella Canfarelli mi sembra offra forma poetica esattamente a questi passaggi esistenziali (per esempio, nella poesia che dà il titolo alla prima delle due sezioni in cui il libro si articola, Parola-matri: «Quand’ero piccina/ (…)/ mi schernivi ridendo/ perché parlavo italiano. Forse/ per questo non ci capivamo/forse ti chiedevi chi era/quella figlia che andava a scuola/e imparava a leggere e scrivere/e niente sapeva della vita»), dando loro voce dialettale con tutta l’efficacia che deriva dall’onestà, dalla verità della sua quête poetica che si sviluppa come tensione comunicativa («parlo il dialetto/ per farmi sentire»), come scavo oltre il silenzio («perché la voce è finita»), come lucido posizionamento etico («voglio farmi ascoltare/ da quelli che tengono/ gli occhi abbassati»).
Addentrarsi nell’area scognita e a lungo oggetto di autocensura è però anche segno del coraggio di muoversi lungo una cesura – generazionale, linguistica, culturale: nell’esperienza di chi ha trovato l’italiano a scuola, come lingua della socializzazione secondaria – il richiamo in esergo al pensiero di Tullio De Mauro non lascia dubbi in merito alla direzione delle riflessioni di Canfarelli – c’è la scoperta non indolore di quell’antico rifiuto del dialetto come posizione di principio e necessaria premessa all’emancipazione, all’individuazione di sé come essere separato anche sotto un profilo linguistico. Da questa consapevolezza evolutiva, che non è il ripiegarsi all’indietro e in chiusura di una circonferenza ma movimento spiraliforme che ricomprende e amplia il proprio diametro, l’autrice recupera radici e voce, appartenenza e identità personale e collettiva («e vedere e toccare/chi sono, chi siamo»).
Le Prove adombrate dal titolo sono dunque da intendersi certamente come «un tentativo di recuperare quanto suoni e voci e pronunzie si dipartano dal fondo della coscienza e della società in cui hanno finito per inabissarsi», come è ben sottolineato nella bella Premessa al libro firmata da Gualtiero De Santi, ma sono anche, a mio avviso, travaglio ed esito di una dinamica sfidante, una messa alla prova, per l’autrice e per il suo dire poetico, da parte della Parola-matri, la prova del fuoco di una lingua che da una parte è «madre che ti accarezza /la coltre rimboccata», dall’altra è «dolore in bocca». E se la bocca è lemma portante lungo tutta la raccolta, coagulo di senso, spazio di custodia e salvaguardia («i pensieri migliori/raccolti in bocca»), in cui «dimora la luce», la ricorsività delle immagini relative alla scrittura, allacciandosi a quelle legate all’incedere del tempo (un tempo scivoloso, in corsa, che sfugge di mano, o nascosto «nero negli angoli/ dove gli occhi non vanno/ a guadare»), impongono a chi legge una triangolazione chiara tra il dicibile, il pronunciabile, e ciò che può e deve essere scritto, e come: «con la lingua che inciampa», è vero, ma, in un rinnovato («tutto sembra nuovo e chiarissimo»), aurorale «mattino pieno di luce», «parola/ viva, uscita dalla bocca dell’eterno». E per mano di Maria Gabriella Canfarelli, «sotto la mano che pesa parole», parola di squisita poesia e, tra «quelli di prima/ e quelli di ora, quelli che verranno», lingua che s’infutura.