Rovistare tra tempi e luoghi della vita

Recensione di Ombretta Ciurnelli

 

Revuçégne (Rovistamenti), edita nel 2019 della Casa Editrice puntoacapo, è la seconda raccolta in dialetto del poeta abruzzese Marcello Marciani dopo Rasulanne (Rasoiate) vincitrice nel 2012 del Premio Città di Ischitella – Pietro Giannone.

Il dialetto usato è un lancianese «piuttosto desueto, con recuperi arcaici, che include a volte anche termini di altre località dell’area frentana», una lingua che giunge all’Autore «dal profondo, da suggestioni sonore legate a un’infanzia di nenie e scongiuri»1, una lingua materica, aderente alla concretezza del vivere, fanatéche (fanatica), longhe de štrafalarìje (lunga di strafalcioni), e, come recita la lirica Léngue, capace di scuotere lu lind’e ppinte de li voccammulle (il lindo e il pinto delle bocchemolli) e di sciogliersi nella poesia anche con timbri diversi: dapprima può sembrare doce (dolce) e poi risuonare maréjje (amara), in punta è ‘pperógne (asprigna), ma è anche voce che s’acciacche doce (si mastica dolce), quando arevùsceche li timpe (rovista fra i tempi).

In questa lingua raspogne (rasposa)2 l’Autore rovista nel disordine sparso di un ideale ‘cassetto’ per ri-trovare emozioni e ricordi accumulati nello scorrere dei giorni, assaporandone il profumo nascosto, il colore dimenticato, il sapore perduto, in bilico tra passato e presente, tra la ricerca interiore e un canto corale, quasi epico, che muove dal desiderio di capire e raccontare destini comuni, a volte drammatici, anche in un’impietosa denuncia e con tutta la forza di un’autentica poesia civile. E ciò in una narrazione non frammentaria e tantomeno affidata alla casualità del ‘rovistare’, ma organica, anzi secondo una dimensione cosmogonica. I titoli delle sezioni in cui si articola Revuçégne sono, infatti, i quattro elementi propri di ogni cosmogonia, Fóche, Terre, Arie, Acque, in una prospettiva in cui il frammento è parte di un insieme e tutto può esistere e coesistere: dal fuoco dell’amore alla malinconia dei ricordi, dall’indignazione per tragedie o insensatezze umane, alla riflessione metapoetica sino alla rappresentazione ironica e grottesca di un mondo ch’ha pijate lu scole / e l’arevénne gna se fusse óre (che ha preso lo scolo / e lo rivende come se fosse oro).

A sottolineare l’organicità del percorso sono anche le liriche senza titolo che introducono i quattro tempi della raccolta, costituite ognuna da una strofa eptastica il cui incipit crea un’anafora interna, Jsce fóre (Esci fuori), quasi un’invocazione di epifania, a volte espressione di speranza, in un’urgenza panica di rigenerazione, altre volte di un interiore bisogno di unità di affetti e di in un’ideale compresenza dei vivi e dei morti.

Al Fóche non può che legarsi l’amore, impetuoso, travolgente, a tratti orgiastico che lacera e consuma, che abbampe / lu ciurvelle pe’ jucà du’ sunne a morre (avvampa il cervello per giocar due sogni a morra), che frije a fiasche e frenesìje (frigge con fiaschi e frenesie), rappresentato nella felice metafora del ragazzetto impertinente e malizioso ca se te lasse te fa lence ‘mbusse (che se ti lascia ti riduce a lenci bagnato). Solo a tratti il fuoco dell’amore può sciogliersi in un sogno-memoria di intimi e dolci abbandoni: che jeléne de vaçe m’arefrésche / pe’ štu sònne ceštunie c’ha scucchiate / la scénne a ssa ciarfèlle (che rugiada di baci mi rinfresca / per questo sogno testuggine che ha sgusciato / le ali a questo cappellaccio).

Terre, la seconda sezione,  muove da un intimo desiderio di rigenerazione, che si esprime nello struggimento per un tempo che se sgrógne (si sbrecca), ma diviene anche profonda indignazione per ciò che toglie dignità alla terra: dal ròcele de céle ‘ntussecate (rotolo di cielo intossicato) alla vocche de petrójje che se ‘nchiómme (bocca di petrolio che si ingoia) o alla potente forza distruttiva del terremoto, sino a chiudere il percorso nella surreale e arcimboldica rappresentazione dell’immondizia nella poesia Santa Munnézze de lu sfinamonne (Santa Immondizia del finimondo).

In Arie hanno invece stanza gli affetti e, come un antico Lare, in una commossa religio familiaris, l’Autore ne raccoglie la memoria nella speranza che l’anemèlla dell’antica casa riporti la próvele de lu tempe (la polvere del tempo) e che l’unione rimanga viva: fammel’acréde ch’areštéme aunite (fammi credere che restiamo uniti).

Nello sfogliare l’album di famiglia, in gesti ed episodi dell’infanzia e della giovinezza sono scorti già in nuce tratti e passioni dell’uomo adulto, perché ‘rovistando’ può accadere che si mescolino passato e presente e che  si torni a sentire nel profondo delle ossa la ciuvelézze (la gentilezza) di carezze ormai lontane nel tempo. Al fratello Sergio, cui è dedicato un accorato canto in cinque movimenti, l’Autore deve, ad esempio, il fuoco della poesia e lo stordimento che gli procurano le parole: è tutta colpa te’ se me si’ ‘ppicciate / štu fóche štu jóche a zumpe e pecundrìje (è tutta colpa tua se m’hai appiccato / questo fuoco questo gioco a salti e malinconie).

Nell’ultima sezione, Acque, accanto alla speranza che l’acqua sia forza rigeneratrice, c’è l’aspra denuncia per un ambiente degradato, come nella lunga lirica Mar’addó’, il cui titolo è reso in lingua con il gioco di parole ‘Maredove (o Amarodove)’, in cui l’inseguirsi serrato di ottonari svela implacabile l’insensatezza umana: Mare tòsche, maravalle / de scazzille e mascalubbre, / maštrille ‘mpìjte d’óje (Mare tossico, malora / di chiazzelle e di vaiolo, / trappola riempita d’olio).

In Revuçégne, accanto alla giocosità irriverente che ricorda certa poesia comico-realistica del XIII secolo e la denuncia che si fa invettiva e, a volte, quasi anatema, tra il fuoco dell’amore e la malinconia dei ricordi, nonché quella di d’anime spirse nche la lóte ‘m pette (anime sperse col fango sul petto), si sottolinea il profondo valore della parola – e quindi della poesia – che entra nell’animo come un favógne (favonio), creando stordimento, arrotolandosi nella mente, mentre scrìzzeche e s’allégne / dentr’a la ‘ntacche de šta terra scite (schizza e alligna / dentro l’intacco di questa terra andata) e nella lirica che chiude la raccolta (Na paróle) c’è tutto il desiderio sconfinato che la parola/poesia possa dare il suo segno in questa terra scite (terra andata): ‘bball’a lu cannarine de lu tempe / putesse la paróle sciuvelà’ / gna fusse acque de legne frìjelógne / pe ‘mbónne bbóne št’aria allanganite (in basso al gargarozzo del tempo / potesse la parola scivolare / come fosse acqua di legno friccicosa / per bagnare bene quest’aria assetata).

Nella poesia di Marciani il ritmo è sempre incalzante, scandito spesso da un procedere anaforico e allitterante, in un ricco e denso impasto linguistico, quasi un rotolarsi di sonorità le une sulle altre, con tautogrammi e lunghe enumeratio, spesso per asindeto, a volte senza articoli, quasi non bastasse lo spazio di un verso o di una strofa per raccontare e raccontarsi, per denunciare o irridere con pungente sarcasmo, nell’irrefrenabile incalzare delle emozioni e in una sorta di bulimia linguistica che si traduce in un accavallarsi di intense metafore e di immagini surreali. E quasi declinando nella poesia la rapidità calviniana, Marciani, in una creatività prorompente, regala al lettore vivaci personificazioni e rappresentazioni immaginifiche. Si ricorda, ad esempio, l’immondezza dipinta come una Papessa che ha per seni tragnate de scamorze (secchiate di scamorze), per bocca n’ajafritte de ciufille (un agliofritto di uccelli) e pe’ panża materazze d’ovallesse (per pancia materasso d’uova lesse), ci sono poi la terra che tósce/ trince case […] nche le bandïole de Sante Dunate (tossisce/ trincia case […] con le convulsioni di Santo Donato), la luna nche sciucche / sbèncete (con camice / slavato) e l’innamorato che appeso alla cchiù storte pence (alla tegola più storta) di un tetto scalcia sottadesopra (sottosopra) a na spére / de sole ‘ncantecate a na pertóse (a uno spiraglio / di sole incantato dentro un’asola).

Il lettore è rapito sia dall’espressionismo che caratterizza il racconto che dal gioco linguistico che non è mai fine a se stesso, come nella poesia Emme (Emma), costruita sull’omografia della lettera Emme e del nome Emme (Emma), in cui si conciliano delicatezza d’affetti ed estro creativo: tè Emme matrecale e tè mannite / tè mènnele e melélle e margarite […] quant’è monne štu monne che sa Emme (tiene Emma matricaria e mannite / tiene mandorle e meline e margherite […] quant’è mondo questo mondo che sa Emma).

Lo stile della raccolta rinvia a una poesia performativa di cui l’Autore ha dato nel tempo significative prove. Suoi testi in dialetto sono stati, infatti, teatralizzati e messi in scena negli spettacoli Mar’addó’ (1998/1999) e Rasulanne (2008/2012) cui ha partecipato come attore. In proposito Manuel Cohen, nella pregevole postfazione alla raccolta, parla di una «esuberante, mercuriale e pirotecnica pronuncia linguistica», secondo una testualità «adatta a una dizione spesso teatrale».

Una nota particolare merita l’autoversione delle poesie di Revuçégne, posta a fronte sulla pagina destra ad attestare sul piano grafico la volontà di dare lo stesso rilievo alle due lingue. Se è frequente che i poeti dialettali nelle loro traduzioni usano un registro più elevato rispetto a quello del testo originale, distanziando le due lingue, Marciani, sia sul piano lessicale che su quello ritmico, riesce a ricreare l’impasto denso del suo dialetto.

Va detto che il nostro Autore nelle sue raccolte in lingua (si ricordano Silenzio e frenesia, 1974; L’aria del confino, 1983; Body movenents, con traduzione a fronte in inglese di Amelia Rosselli, 1988; Caccia alla lepre, 1994; Per sensi e tempi, 2003; Nel mare della stanza, 2006; La corona dei mesi, 2012; Monologhi da specchio, 2017) si distingue per un idioletto lontano dal ‘poetichese’, con l’inserimento di termini gergali, di neologismi, di forestierismi, di dialettismi, quasi a «creare una sorta di neolingua, vicina all’espressività del parlato»1. Sebbene egli scriva in una nota che la sua traduzione «non vuole essere una versione poetica italiana» e che svolge un ruolo «ancillare» rispetto al dialetto, nei fatti non ne tradisce la matericità, l’asprezza o il ritmo, creando in lingua neologismi che ripetono il suono e l’impasto di molte parole: chiazzelle (scazzille), mi infondaco (me ‘nfóneche), sprecheria (sprecarìje), s’accrocca (s’accócche), alluma (allume), insebatura (‘nsevature). A volte sceglie arcaismi o termini desueti, come frizzìo (frìcciche), terra fuffa (terre fuffa), si sbuzza in foglie (se sfraje a frónne), scordamenti (scurdanze), una ruffa raffa (nu vurravurre) e mantiene sempre le parole-macedonia usate frequentemente e con particolare efficacia nel testo originale: tondofondo (tonnefónne), Madreimmondizia (Matramunnézze), bocchemolli (voccammulle), azzurravvoltolato (azzurrabbérrutàte), moschellacieca (muschellacéche).

E così la traduzione, assai più che nella raccolta Rasulanne, dove era di servizio, posta in calce al testo, conserva in gran parte il sapore del dialetto o ne ricrea il ritmo percussivo. Una scelta stilistica non di poco conto se si considera che nella poesia di Marciani accade che lo stesso significante si faccia significato, esaltando tutta la potenza espressiva del dialetto.

 

 

Ombretta Ciurnelli

 

 

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1 In Analisi della lingua tra dialetto e italiano, 2014, in Lietocolle.com

2 In Rasulanne, Cofine, Roma 2012.