Patrizia Fanelli (L’albero rosso, Roma, Cofine, 2004) parte dai dati quotidiani più domestici e ovvi e li riscatta dalla loro ovvietà astraendoli (e astraendosi) in pensieri suoi, che sono riflessioni o semplici considerazioni o procedimenti per metafore. Questo processo mentale è scoperto nel brano a p. 38, “Gli orli”. Parte dalle faccende quotidiane più scontate: “Le bottiglie sul mobile di fronte /da quanto non le spolvero, ancora /cose da fare e stiro i panni li sistemo / ci vorrà tempo”; poi una considerazione: “un tempo che mortifica / i pensieri”; poi lo sbocco nella metafora: “Tagliuzzerò orli di questo / giorno per dire?”, dove intende: “dovrò trovare il tempo per pensare e scrivere”. Qui il processo è palese: dei tre segmenti messi in evidenza, l’ultimo riscatta i primi due, che ci giungono comuni e senza rilievo (ma è buono l’allaccio fra la prima e la seconda parte, nello stesso verso e senza interpunzione: “ci vorrà tempo un tempo”).
Senza rilievo perché Patrizia Fanelli non persegue una poetica spinta del quotidiano, non intende elevare i movimenti di ogni giorno, affermarli e imporli per accumulo, per anticlimax, per deflazione dell’atto poetico – che tanta parte costituisce delle poetica novecentesca estera e nostra –; vuole appunto riscattare non il quotidiano dell’umanità ma il quotidiano della propria vita, mettendolo a contrasto con la forza della propria immaginazione. Ed è in questo tipo di “ispirazione” che crede. Con risultati felici dove il processo verso l’immaginazione è meno scoperto. Per esempio, nel brano che prende il titolo dall’incipit: “Da una fessura il mare e sopra un limbo / di sabbia / la torre dirupata intaglia ombre, / anche le ombre della mia paura: / meglio un andare dagli incerti approdi?” (p. 29). I dati su cui lavora qui sono meno ritratti e descritti (“fessura”, “torre”, la comune astrazione “ombre della mia paura”, e lo sbocco nel metaforico “andare dagli incerti approdi”, con la notevole ambiguità della preposizione “dagli”: lontano da? verso?).
È come se l’atto compositivo per l’Autrice consistesse nel decidere quanta “materialità” di dati e di gesti lasciar fuori e dare per sottintesi o allusi vagamente. Quando i gesti non sono così alleggeriti, in effetti appesantiscono l’intero brano (esempio, “Sosta sull’ombra”, p. 28, che si conclude con un prevedibile “attendere che inesorabile / si spenga la luce della vita”; in tale condizione non del tutto riscattata vedrei le poesie della prima parte, di argomento familiare, “Amorosi sensi”). Caso opposto per altri brani, dove un contesto non particolarmente attraente viene illuminato da sprazzi o anche da più d’un verso felice: “la tenda, ala minuta, si solleva / muove il tempo lo attraversa” (p. 32); ed ecco l’incipit di quella che pare fra le migliori poesie o la migliore: “Questo il mio mondo, calendario scolpito / nel cuore dei silenzi o archivio d’albe” (p. 37); e un altro notevole attacco: “E intanto vivere / questo corpo tra dita leggere / ” (p. 40).