Renato Pennisi. La ricerca della Luce tra le tenebre della ragione

Nota di lettura di Maria Gabriella Canfarelli

Mercanti, predicatori, spacciatori di menzogne, esibito trionfo del materialismo e dell’impostura, dell’artificio elevato a potere di persuasione per irretire la coscienza: questi e altri temi nel poemetto in sei cantiche Luce di Renato Pennisi (Carabba, 2023, collana Diramazioni diretta da Giovanni Tesio), un percorso, un cammino nel tempo storico-esistenziale in uno alla presa d’atto della invasiva e asfittica normalità estranea dell’uomo contemporaneo, e del suo tante volte superficiale agire. 

Ci interpella, ci inquieta e fa riflettere la scrittura potente di un poeta (e scrittore di narrativa e di testi teatrali) che enumera e fedelmente trascrive le facce del vuoto spirituale, ché siamo di fronte a una penna abilissima che non ama i ghirigori, che punta al cuore della questione con un sorvegliatissimo severo dettato che è lume, faro puntato sulla Storia e sulle storie, di ieri come dell’indistinto oggi: potrebbe essere l’alba o mezzanotte/di un qualsiasi tempo. /Sono certo soltanto del freddo. Tanto sobrio e incisivo è lo stile, la forma, quanto ricco di contenuti, di assunti paradigmatici, di significati plurimi sorretti da costrutti etici e intellettuali permeati da schietta indignazione civile. Ai monologhi in prima persona singolare si avvicendano coinvolgenti dialoghi con alcuni tra i più significativi autori del Novecento: mentori quali Sciascia, Pasolini e altri riferimenti letterari e quelli umani presenti nel testo – gli amici scomparsi Salvo Basso, poeta e politico illuminato, Ettore Iaci, il brillante compagno di liceo dell’autore, e Antonino Mirabile, alla cui memoria questa Luce è dedicata. Inconsistenza e vacuità sono materia di una indagine che investe l’anima e la ragione, binomio di pari passo certificante la deriva di un mondo pervaso da egoismo, indifferenza e molto altro male, frattanto che gli ultimi, i diseredati, reclamano, attraverso la limpida icastica voce del poeta, giustizia e dignità. Sono pagine magnifiche e terribili stigmatizzanti l’umana insipienza, la superficialità d’una vetrina addobbata di nulla, del bla-bla-bla della politica in primis, di vuote ciance propalate dai media, dai talkshow, dall’uso scriteriato dei social, trionfo esibito e volgare di un occidente opulento e cinico. 

In ogni verso il tema dell’impostura e della desertificazione spirituale rimanda a riferimenti autoriali evidenti o sottotraccia, questi ultimi non meno pregnanti ed emblematici quali la eliotana Terra desolata, e lo sciasciano Consiglio d’Egitto, libro esemplare di distorsione e manipolazione della realtà storica. 

Guasti umani mimetizzati nell’ordinaria sequenza dei giorni esaminati da una coscienza critica e politico-sociale che è voce di denuncia, come già in altri testi di Pennisi, Pruvulazzu (Polvere), del 2016 (con una nota di Giovanni Tesio) e L’impazienza, del 2019, segnatamente, di quest’ultimo, la parte prima dal titolo La disaffezione, entrambi editi da Interlinea. Non solo continuum tematico, dunque, ma ulteriore approfondimento di un percorso-discorso che dalla traccia, dall’orma, dall’impronta originaria dell’esperienza esistenziale (nella città come nel quartiere) ora si dirama per le strade della vita ovunque essa sia offesa dall’apparenza, dall’egoismo, dalla pulsione distruttiva.  

In ouverture, il poeta è In cammino, uomo che cerca la verità, un Diogene del presente che richiama il nostro recente passato e in esso uomini che hanno contribuito a tenere alta la ragione. Il poeta incontra Pier Paolo Pasolini, dal volto inciso/dalle labbra strette/ dallo sguardo che scorre ovunque, il primo mentore. La  voce di Pasolini esorta a prestare attenzione e cura e protezione  alla discendenza umana, i figli del mondo che vanno seguendo le correnti/dietro cavalli di niente/ma le mani hanno di acqua; è c’è la nebbia, il rumore dei crolli, sabbia e intonaci cadevano in un lamento/che diceva fine che diceva basta, e  pure diceva della fine del sogno di pace, libertà e speranza, di affratellamento dei popoli dopo la caduta del muro di Berlino intanto che s’alzano altri muri (l’indifferenza, il profitto dei pochi sulla pelle dei molti), e nuove e vecchie guerre causano tutta la povertà del mondo/ le malattie e tutte le violenze/le nostre certezze così umili /di fronte ai nuovi paradossi/ le generazioni vocianti/ euforiche e gli stermini/ i tiranni che sostituivano/ i tiranni servi dell’occidente e tutto copre la nuvola gigante scesa / (…) / (…) / su ogni campo e casa della Terra; brucia il pianeta, bruciano i corpi umani in ogni luogo, bruciano le Torri Gemelle. Geocidio e omicidi di massa a ripetizione, replica d’una pellicola riavvolta su sé stessa, di una Storia raccontata per singole inquadrature o in sovrapposizione e in retrospettiva. Si torna indietro, dal presente al passato recente cadendo a precipizio dal paradiso agli inferi; viaggio all’incontrario inverato dai versi in esergo al libro, parola del sommo Dante: Ormai puoi giudicar di quei cotali ch’io accusai di sopra e di lor falli che son cagion di tutti vostri mali (Paradiso, canto VI, vv. 97-99). Cade la Luce e tutto è ottenebrato, incerto il passo del viandante, Non so in quale passato mi trovo, strofa che apre la seconda cantica, un incipit colmo di smarrimento, senso di straniamento, angoscia per l’identità smarrita di un io che guarda intorno e vede rivoli le pozzanghere/ che non riflettono figure/uno sposo felice ocra/ uno spettro con la mia forma /un pupazzo di neve sporca. Di colpo appare un altro luogo, una città che sappiamo essere di Sciascia la natia Racalmuto, dello scrittore la materia inerte d’una statua che lo raffigura, statua che si anima in corpo e in parola:  un’ombra si confida/ e un volto batrace tirò una boccata di Chesterfield e due getti di fumo dalle narici; discute, l’intellettuale illuminista, della Sicilia e dei siciliani, ovvero de La Sicilia come metafora, conversazione che tiene il punto sul carattere, sulle pulsioni, sulla natura degli isolani, un fuoco che divampa nel suo mare/ci sono uomini quieti e risoluti /e genti alla guerra/da genomi formati/ che amano parole di lama/le scrivono finanche/passeggiano tra le rovine/ ci raccontano il futuro; racconta, Sciascia, dei  personaggi letterari sue creature e delle figure storiche presenti nei suoi saggi e nei romanzi. Di Bellodi, della morte di Moro, di processi e delitti e molti altri frutti d’un mirabile regno letterario pregno di sostanza civile, un alfabeto opulento di lettere poste come caselle in un cruciverba (ché la Storia è come un immenso “Cruciverba”, una delle raccolte di saggi sciasciani). Quando Pennisi ci offre il repentino cambio di scena e intersecazione o sovrapposizione, slittamenti cronotopici di sequenze, la sua visione di realtà diventa nostra e il lettore avvertito osserva e sente ciò che l’autore, da cronista attento, fedelmente riporta. Ora anche a noi parla il migrante Alì di razza berbera guerriero, che al poeta descrive l’odissea d’altri migranti, dei morti senza nome; a volte la successione degli eventi procede passo dopo passo verso la speranza e la fiducia nel futuro, nell’incontro inatteso e sorprendente con Una donna di una giovinezza/ non lontana, donna dall’incedere sinuoso ed elegante che accoglie, si prende cura del poeta-viandante, lo rifocilla con un cesto di pane fragrante/ tra le pieghe della gonna a fiori: è donna Madre Terra consolatrice dell’uomo che cerca, propiziatrice del sonno ristoratore. Ed è lei, nella terza cantica, a portare il profumo inatteso del nuovo giorno, la Terra amante-madre-amica donatrice di grazia/ e altra forza e nuova consapevolezza: ora so dove sono, /e dove andrò. 

Agli occhi del poeta s’apre improvvisa la visione di calpestati fiori gigli incompresi, di muri crollati, pietrisco, palme mozzate (Pensai vi fosse passata una guerra/o una tempesta o una furia comunque/ d’armi o di parola), quattro frammenti della parola “Europa”, e le illese banche deserte d’umana presenza: Era questo gelido cantiere/il cuore del commercio? / Di quella chiamata terrena felicità? Del vecchio continente, i segni della dissoluzione accuratamente descritti nella quarta cantica, sono anch’essi rappresentazione fedele dell’oggi, di una Europa un tempo mitica che adesso è una piazza/è una folla senza bonomia, mera area geo-politica e finanziaria senza ideali ove stanziano i venditori di nulla, di fumo, gli scommettitori, gli spacciatori di erba e acidi e polverine. E tablet, smartphone, e altri strumenti di inquinamento elettronico: il male magnetico/ due amici cari e maestri/quella rogna mi ha ucciso. L’ultimo mentore, Ettore, lo riceve nella sua casa dell’aldilà; il dialogo tra i due tocca le corde di un tempo che rimpiango quando le idee/ in mille lingue/varcavano ingovernabili/ le frontiere; dalla finestra entrambi osservano la  fabbrica abbandonata dove C’era lavoro qui e allegria/ e più di novecento operai, dice Ettore, e ancora: i liquami gli scarti/tutte le tossine/ scorrono nelle pozze/ i corrotti il potere che non vede/gli autori di questo matricidio, ovvero gli ingordi  del profitto, gli speculatori finanziari, l’immorale oligarchia plutocratica cui non  importa dei nostri giorni /e delle civiltà, e delle generazioni. 

Nel canto quinto appare “Un politico. Nel Parlamento”, luogo istituzionale dov’è spenta la ragione. Un rappresentante del Potere che si vanta d’essere il tranquillo demone del tempo/ che tutto confonde e inganna; con sussiego egli si conferma essere Satana, portatore di buio mortale e di sopraffazione, violenza, guerra e guerre in nome della luce tossica del petrolio e dell’atomica. Severa e lapidaria è la riflessione di Pennisi su un mondo/ che non pensa che non vuole, che non sceglie, intanto che lo sguardo inquadra l’emiciclo affollato /da dignitari senza studio né qualità, (…) urlanti attaccabrighe che Dallo scanno urlano sgrammaticati/posano si truccano sorridono/ da stelle conclamate del cinematografo, politici immersi nel delirio del nulla/e Satana li irride/ ne fa strumento e si diverte. Il viaggio volge al termine, siamo nell’ultima cantica e, ancora in compagnia di Ettore, il poeta assiste ai preparativi seducenti d’un talk show. Un contenitore spettacolare in cui si celebra l’apparire, si mette in atto una pantomima descritta in ogni minimo particolare, invero ridicola: sala trucco, mascara antiriflesso/i capelli immobilizzati con la lacca, uno spettacolo tra i tanti propinati agli incauti, fiduciosi spettatori. Nello studio televisivo si accomodano un politico, una giornalista, l’opinionista di turno, lo storico che spiega/di Caligola imperatore/che al suo cavallo nel senato/diede lustro, e in disparte l’io poetante che osserva, riflette, pensa a tutti gli asini/tra i banchi del nostro parlamento svilito da tanta gente inutile al potere, rappresentanti d’una democrazia (…) dimezzata dagli ignoranti, dai presuntuosi, dagli incompetenti, da politicanti ben pasciuti, arroganti mai sfiorati dal dubbio. Di traboccante furore civile è il timbro di questi versi, summa d’un dettato poetico in tanta parte amaro, disilluso: Strano Paese è questo/ dove ogni cosa appare fuori posto/ qui l’intelligenza è timida/ e dipinto è il coraggio/nel ritratto dei mercenari.  Di questo e altri fatti Renato Pennisi è trascrittore acuto e attentissimo per fedeltà di rappresentazione di vicende ciascuna delle quali, enucleate o intrecciate tra loro, stigmatizzano le cause del profondo malessere della nostra civiltà, forse (ma più che probabile), di questa, la futura implosione.  

Renato Pennisi è nato a Catania nel 1957. Avvocato. Dopo l’esordio con la raccolta Letture senza spartito, inserita nell’antologia 7 Poeti del Premio Montale (Scheiwiller, 1987), ha successivamente pubblicato i libri di poesia La correzione del saggio (nota di Arnaldo Colasanti; Tringale, 1990), Mai più e ancora (premessa di Silvana La Spina; Edizioni l’Obliquo, 2003), La notte (presentazione di Giovanni Tesio; Interlinea, 2011) e L’impazienza (Interlinea, 2019). È anche autore dei libri di poesia in dialetto siciliano Allancallaria (premessa di Corrado Peligra; Prova d’Autore, 2001), La cumeta (premessa di Franco Loi; Edizioni l’Obliquo, 2009), e Pruvulazzu (nota di Giovanni Tesio; Interlinea, 2016); e dei romanzi Libro dell’amore profondo (Prova d’Autore, 1999), La prigione di ghiaccio (Prova d’Autore, 2002), Romanzo (Prova d’Autore, 2006) e Nel mio futuro non ti porto (Interlinea, 2022). Per il teatro ha scritto Oratorio di resurrezione (Edizioni Novecento, 2015) e Alcibiade (Edizioni Novecento, 2019). Con Gualtiero De Santi ha curato, per questa collana, il saggio-antologia Dalle carte dell’isola. Il libro della poesia neo-volgare siciliana oggi (Carabba 2021)