Remigio Bertolino: ‘Versi scelti 1976-2009’

Una recensione di Nelvia di Monte

Questa antologia di testi scelti dalle raccolte pubblicate in oltre trent’anni, a cui si aggiunge una sezione di inediti, offre la possibilità di ripercorrere in modo unitario una lunga esperienza di scrittura ma anche di considerare se la selezione privilegi un sentiero per addentrarsi nel mondo poetico di Bertolino e osservare da una particolare prospettiva il paesaggio umano delineato da una lingua così asciutta e misurata. Nella nota conclusiva è lo stesso poeta a motivare il suo ricorrere a “parole materne” che appartengono alla parlata di Montaldo Mondovì, tra Piemonte e Provenza. Un dialetto “circoscritto e arcaico” che “scaturiva dalle profondità dell’anima; possedeva una folgorante forza icastica, una rara immediatezza e potenzialità evocativa”. Con il riserbo che lo contraddistingue, il poeta cita alcune tematiche da lui affrontate riguardo a tante “vite anonime nella ruota del tempo” ma solo entrando dentro la sua poesia si comprende la ricchezza di argomenti e la profondità di pensiero che la scrittura dischiude a partire da quel circoscritto ambiente rurale di montagna a cui è così intimamente legata.

 
Il testo in prosa (Bertolino è anche scrittore di racconti in una prosa particolarmente suggestiva) di apertura è dedicato alla madre, morta quando l’autore era bambino, e nel ricordo del giorno in cui l’ha persa si fondono in modo indelebile molte immagini – del tempo, del dolore, di un’antica società contadina, della natura – che vengono tolte dalla semplice descrizione e proiettate sul piano metafisico di un possibile incontro oltre l’orizzonte che si percepisce, “dëdlà dël cercc celest dij brich – oltre la cerchia azzurra delle montagne”. Qui un’unica speranza lega il tempo dell’infanzia all’età adulta, suggerendo come esprimere gesti, pensieri, sentimenti: “forse se io mi arrampico su un raggio di sole posso vedere dov’è mia madre, dove hanno portato il suo sorriso, le sue parole”.
 
Tanto spazio hanno i bambini nella poesia di Bertolino, soprattutto gli orfani, figure reali (fino agli anni settanta a Mondovì c’era un orfanotrofio) ma diventate simboliche, come i vecchi, i contadini poveri, le donne stanche e maltrattate, tutte “voci” di una società contadina impregnata di fatica e povertà, realmente esistita fino ad alcuni decenni fa. Ma non è intenzione dell’autore recuperare in senso antropologico il mondo della sua infanzia, ormai ridotto a vecchie case abbandonate, “Ere, specc ëd silensi fròj: / un caussinass ch’os dëstaca, / l’ombra d’un ciò / ch’a serca numr scancc-là (…) dai porton gnun-e man masnà / a ëmpilo ëd riondorin-e  – Aie, specchi di fragili silenzi: / un calcinaccio che si stacca, / l’ombra d’un chiodo / che cerca numeri cancellati (…) dai portoni nessuna mano di bambino / a riempirlo di rondini”.  Al poeta sta a cuore trasformare la lontananza nella possibilità di osservare la realtà trascorsa e presente da una diversa angolazione per coglierne quel nucleo davvero significativo che permane invariato nello scorrere delle stagioni e attende chi lo sappia percepire: “mia famija armonta / ënt la sava dël castagne; / sent le vos / ënt ël feuje ch’i balo al vent… – la mia famiglia risale / nella linfa dei castagni; / sento le voci / nelle fronde che danzano al vento…”.
 
Il senso intimo della vita, che resta imperscrutabile se osservato troppo da vicino, si è conservato intatto dentro paesaggi di gelo e silenzio, protetto dalla coltre di neve che come “una sarta / sapeva le misure / d’alberi, guglie, tetti / e quelle dei miei sogni”. Si è tutti abbandonati al mondo, orfani presi in affido dalla vita che ben poco riesce a offrire ma quel poco è incommensurabile se riesce a fondersi nella percezione di un’eternità in cui ritrovarsi con chi non c’è più e di una luce che, per quanto flebile, traccia la sua scia come una lucciola nelle notti di maggio. Non si può sfuggire alla costante presenza della morte, all’oscurità della sofferenza e della perdita in un mondo dove le “apocalissi” sono quotidiane esperienze di vita. Bisogna guardare in altre direzioni, dëdlà dël cercc, ed infatti c’è molta luce nelle poesie (come nei titoli di intere raccolte: Sbaluch – Splendore, A lum ëd fiòca – A lume di neve), la luminosità trasparente di un cielo terso, mèta ultima di uno sguardo che si è purificato attraverso “Neve, silenzi, lontananze spezzate” e ora può scorgere ciò che proviene del passato, “la luce dei tuoi occhi / è un lampo tra veli di tempo”.
 
In questa tensione ad oltrepassare il buio risiede la finalità della poesia, che giunge insieme al disvelarsi della realtà dopo una lunga e sofferta ricerca, quando “come na greuja ch’as rompa / l’ombra ch’as no stava / lì ëngrumlìa da agn / a l’é fasse lus e paròle – come da un guscio che si rompe / l’ombra che se ne stava / lì raggomitolata da anni / si è fatta luce e parole”. L’aspirazione ad un movimento verso il ‘chiarore’ emerge costantemente nella poesia di Bertolino, ed è un movimento che unisce gli elementi della natura ma svela anche il destino di pesantezza e oscurità destinato unicamente agli esseri viventi; da qui l’invocazione alle nuvole che con “fili di luce” creano immagini nel cielo affinché possano “allungarne un capo / a salvarci mentre ci perdiamo / dentro budelli di notte / talpe cieche / a sputare semi di terra”. La scrittura tende ad una scabra essenzialità: mai difficile, presenta immagini riconoscibili,   gesti che racchiudono ataviche esperienze, pensieri e ricordi che appartengono al singolo e alla sua solitudine ma tutto delinea un mondo condiviso, preciso nel diventare  specchio della immutabilità di fondo della vita e a cui l’inverno – stagione simbolo – offre la trasparenza del gelo e il bianco e nero dei suoi colori dominanti, così simili ai segni delle parole sul foglio.  Il paesaggio e chi lo osserva vengono proiettati in un tempo iperealistico e lontano, prossimo ad un sogno che suscita atmosfere a volte stranianti, a volte di intima vicinanza con persone amate ormai assenti. Scaturisce qui la forza evocativa di questa poesia, fusa in una lingua aspra e remota che rende brevi i versi, limita l’uso di aggettivi e procede lineare ad un racconto che si inoltra in spazi dilatati, in quel tempo sospeso oltre il reale dove gli opposti convergono in gesti così lievi da allontanare ogni paura: “ma le passonà dla mort? / Pì legere dij gat / quand fan na filesca ’n cusin-a / o dël pàssore con la pau / dë strocioné ’l cussin / neuv ëd fiòca / sij cuvert – ma i passi della morte? / Più leggeri dei gatti / quando rubano in cucina / o dei passeri col timore / di gualcire il cuscino / nuovo di neve / sui tetti”.
 
Se la scelta dei testi antologici attuata dal poeta vuole privilegiare una determinata prospettiva o sottolineare una particolare atmosfera, forse ciò avviene accentuando il movimento, il percorso più che i soggetti dal momento che le tante “vite anonime nella ruota del tempo” valgono per se stesse, per le loro umane vicende, ma soprattutto sembrano immerse in un tempo infinito che tutto lega in una luminosa trasparenza. Come nel lungo testo inedito Scie di slitta, che racconta il percorso invernale dei contadini per andare a prendere l’erba nei fienili delle baite e ritornare al paese, dove il cerchio si chiude ma, guardando indietro e osservando le proprie tracce, un senso più profondo emerge dal viaggio appena concluso: “Ëndrë, ël nòstre ëlsére / van a perdse drinta j’ombre dla tosca: / già doman neuv puvrin / o cuatrà ën silensi, sensa fin, / ël trasse lusente / che ëdma ëncheu j’oma lassà. – Indietro, le nostre scie / vanno a perdersi nelle ombre del bosco: / già domani nuova neve / colmerà, in silenzio, senza fine, / le orme splendenti / che solo oggi abbiamo tracciato”.
 

Remigio Bertolino Versi Scelti 1976-2009 (Puntoacapo Editrice, 2010)
 
Nelvia Di Monte
15 marzo 2011