Quinta vez di Maria Pia Quintavalla

Recensione di Anna Maria Curci

 

La scrittura di Maria Pia Quintavalla si caratterizza per una intensa dialettica di incontro e commiato, come ebbi modo di scrivere nel 2012, allorché presentai presentai, per il «Giardino dei poeti» di Cristina Bove, due testi allora inediti di Quintavalla. È una dialettica che sa essere struggente e sorvegliata nell’espressione, temeraria e raffinata.

Quinta vez ha e offre il fascino di un confronto che si riallaccia in questa raccolta al narrare in versi della figura di China, quale i lettori conoscono almeno fin da China del 2010 (Edizioni Effigie).
Con una particolarità: questo ritorno – un vero e proprio Volver nel snso del film di Almodóvar, con l’avvicendarsi di figure femminili, madre, figlia, sorella, nipote, di ricordi, ruoli, riflessi e riflessioni – approfondisce ed estende il movimento non solo in direzione del complesso e del profondo, ma anche dell’universale, come archetipo eternamente ricorrente.
Ecco, dunque, che la dialettica si arricchisce di ulteriori nodi e snodi, di reti e di melodie, di epifanie e di passaggi, nei quali i verbi riversarsi e confluire sembrano suggerire, se non addirittura imprimere, la direzione all’incontro, al commiato, al ritorno, alle vicende individuali così come alle epoche storiche: Quinta vez – vez significa “volta” in spagnolo – racchiude insieme la prima parte del cognome dell’autrice e il moto perpetuo del volgersi e del ritornare.
Lingue storiche, linguaggi e stilemi letterari, registri linguistici si riversano e confluiscono anch’essi, conferendo, nella pluralità, significati che pungolano chi legge e chi ascolta a indagare, a ritornare, a meditare sul testo, o anche, semplicemente, a farlo cantare e decantare:

Che tu emanavi musica, ricordo bene, è stata la prima
immagine di te avuta al mondo.
Di questa musica avremmo spostato insieme le altezze,
la durata, la curva della melodia, forse anche un canto
era possibile.

In una articolazione così composita occorre essere disposti a leggere non solo tra le righe, ma anche a essere continuamente spiazzati circa la dialettica, ad esempio, tra il titolo della singola sezione e il suo sviluppo.
Nella prima sezione, infatti, dal titolo Pre-natale, è contenuto il dialogo con la madre morta, o ancora meglio, con l’evocazione e la rievocazione dei suoi detti, dei suoi gesti insieme lievi e incisivi, del suo emanare musica.
Mater  e Mater II presentano la figlia della prima sezione come madre di una figlia che irrompe a sua volta con la voglia di cambiare, trasformare, capovolgere, perfino:

Lei non ascolta, se cammina non ti vede più
sei tu alle spalle, la conosci
dal silenzio dei passi, lei non corre
più accanto alla tua vita ma davanti,
la sospinge e spinge via.
Lei non sa nulla
ma se la guardi appena, dietro al viso
c’è ancora quel sorriso e gesto pieno
della mano ha il volo di un gabbiano
nato intorno al seno, ne aumenta le parole
nate dal futuro.

Spicca il volo, la figlia della figlia, con un linguaggio partorito dal futuro e pur sempre «nato intorno al seno», con gesti, tuttavia, che contrastano vivacemente, con un fiotto di accuse e rivendicazioni (non a caso ricorre, in Mater II, il termine «vomito»), l’inchiostro calmo di China, vale a dire la rievocazione della figura della madre che restituisca un ordine meditato dopo la devastazione. Il dolore del contrasto della figlia di China con la propria figlia si colloca, con una espressività notevole, all’interno del paesaggio urbano milanese, quasi a fondersi con esso.
La sezione Quinta vez, o del ritrovamento riporta esplicitamente China, come trasfigurata e, allo stesso tempo, concretamente incarnata in una Castiglia che si anima, nel Prologo, di una lingua inventata, un pastiche affascinante (che riporta alla memoria il plurilinguismo delle dichiarazioni d’amore di Cosimo, Il barone rampante dell’omonimo romanzo di Italo Calvino), e che nel prosieguo raccoglie, impasta e fa lievitare, in ritmo e fragranze originali, ingredienti della più alta poesia di tutti i tempi, con spiccati accenti danteschi, sia dello Stilnovo, sia della Commedia, così come echi sognanti e divertiti, dolenti e pungenti, di Ariosto e di Cervantes:

Quando di China si vedette il volto
salire in aura, in benvoluta gloria
China già più non era là seduta, ma distante
volgersi e dire in addio serena
le ultime care frasi della notte:
quelle che di cantari, gesta e sacripanti
donzelle e mostri, essa mostrava
sé capace a recitare –

modeste cupole, già case per la mente,
di una speranza che la villa, e mente di Castiglia
più non udiva.

Non mi è possibile non pensare al personaggio della trobadora Beatriz in Vita e avventure della trobadora Beatriz secondo testimonianze della sua musicante Laura, il romanzo di Irmtraud Morgner apparso nel 1974, purtroppo mai tradotto in italiano, a eccezione di brevi brani. Non si tratta qui, come non si trattava lì, di un semplice, forse perfino abusato, eterno ritorno dell’eterno femminino, bensì di una consapevolezza irrobustita e sfidante di un femminile creativo e dotato delle armi dell’ironia.
Il romanzo di Morgner  scaturiva da una temperie culturale vivissima e da un dibattito letterario che andava ben oltre i confini nazionali e scavalcava appassionatamente ogni cortina, anche la cortina di ferro. Erano gli anni Settanta dello scorso secolo e proprio a quel periodo storico fa riferimento la sezione conclusiva della raccolta, Le sorelle, concepita, come ha avuto di affermare Maria Pia Quintavalla, come ritratto di vite parallele, alla maniera delle due protagoniste del film di Margarethe von Trotta, Die bleierne ZeitAnni di piombo.
Le sorelle si presenta come un dialogo serrato in tre scene tra P. e G., che in questo tentativo di contraddittorio – si prova un dialogo, si rintuzzano ragioni, si scava intorno alle radici – si incontrano, si definiscono, si distanziano attraverso le proprie rappresentazioni di sé e dell’altra e, con quell’aura di affetto e lutto, di attaccamento e astio che caratterizza il film di von Trotta, attraverso i ruoli di figlia ribelle, figlia prediletta, figlia obbediente, figlia sovversiva, figlia reietta, figlia accudita, scolpiti dalle ‘sentenze’ di padre e madre:

P. Se non abiuravo. Cosa? Me stessa, lo stesso atto di esistere così, com’ero: era sfida era vergogna, era “che le ero contro” alla mamma solo per come ero fatta, mi sentivo tutta sbagliata davanti a lei: quegli occhi neri pieni di neri sogni, i sognati incubi della sua giovinezza, dove rivedeva, come in film, il baratro di potere essere reietta dalla comunità dei giusti, la sua famiglia. Così profetizzò, così cominciò ad attuarlo per me che non ero lei! Le paure intime antiche divennero il terrore che si stampava sul mio volto, la sua vergogna ne usciva esorcizzata.

G. Di quasi tutto questo io non sapevo nulla. (appare sincera)

Opera a più voci e a più registri, Quinta vez di Maria Pia Quintavalla chiede di essere percorsa e auscultata ripetutamente. Ogni volta, “cada vez”, essa schiude infatti livelli e sfumature che approfondiscono e dilatano l’esplorazione di vicende, individui, dei loro incontri e dei loro commiati. Ogni volta, ancora, essa ripropone un’indagine e un’interrogazione sulle relazioni tra singole biografie, così come sulla relazione tra vicende esistenziali e il variare dei contesti storici.

Maria Pia Quintavalla, Quinta vez, Edizioni Stampa 2009, 2018

 

© Anna Maria Curci

 

Pubblicato il 18 aprile 2019