Quello che scende in gola e al cuore bussa

Nelvia Di Monte su “La cruedda” di V. Luciani
“Sono un poeta che incontri nel tram. / Sono un poeta che incontri nel tran / tran della vita / trita. // Sono il poeta dei giorni feriali”: si presenta così una scrittura che vuole accompagnare la maggior parte del tempo vissuto, quello che trascorre nelle tante – spesso minute – esperienze della quotidianità, dentro spazi prevalentemente condivisi, cioè luoghi d’incontro e di socialità. Simile a La cruedda (che è il titolo di questa raccolta di Vincenzo Luciani), la cesta tradizionale che serviva per trasportare pane o panni o dote ma che diventava pure culla “càvede e cènede – calda e morbida”, abbiamo qui una poesia che cerca parole “saporose” per rendere al meglio quell’intreccio di ricordi e riflessioni, fatti individuali e storici, fatiche, aspettative e delusioni che chiamiamo vita.
 
Perdere il sapore delle cose significa smarrirne il ‘senso’ così che il mondo diventa più astratto e meno conoscibile. Il rapporto del poeta con il passato è complesso, a volte amaro perché evidenzia quanto si siano sbiaditi degli elementi etici fondanti, quali i legami tra le persone che abitano gli stessi luoghi o il rispetto verso gli adulti (ed è molto bello il ricordo riconoscente verso il maestro che insegnava ad amare la propria terra e ad avere degli ideali). Incuria e dimenticanza hanno agito negativamente anche sul territorio, ne sono emblematico esempio il franare delle macere, terrazzamenti costruiti con secolare pazienza e ora abbandonati, e i tratturi imprigionati dal filo spinato dei nuovi proprietari. Insieme sono franati i rapporti umani, e se si cammina ora in quei luoghi “dd’acque nun ce trove / pure se da’ na voce e lucche e lucche / nun t’arresponne manche nu cristiane – l’acqua non si trova / anche se dai una voce e gridi e gridi / non ti risponde nemmeno un cristiano”.
 
Vincenzo Luciani non si abbandona a sentimentali nostalgie, la sua scrittura è di solito pacata e tesa a scovare sia negatività sia valori positivi nelle contraddizioni del presente. Non i grandi avvenimenti ma i gesti, le occasioni fortuite, i ricordi, gli incontri sono tessere di un mosaico che si va componendo sotto gli occhi del lettore, perché molto spazio ha la descrizione di ciò che cade sotto lo sguardo, a partire dal paesaggio naturale e antropico di Ischitella nel Gargano. Ma c’è una concretezza che avvolge pure la spola dei giorni e mostra ciò che resta e ciò che cambia nel tempo, spesso in meglio, come la propria libertà di accarezzare il figlio mentre al padre, allora, non era concesso. Altre esperienze personali e sociali scorrono con naturale semplicità una nell’altra e delineano situazioni che ci vedono comuni e distratti spettatori, come l’ostilità verso l’emigrante, una volta patita nel viaggio della speranza nel Nord industriale e ora ritrovata nell’atteggiamento verso gli stranieri da parte di molti, dimentichi del proprio passato: “Mo’ na ziche arriccute, u core ce jè strinte / e a sti puvrette che vanne truvanne aiute / sapime sckitte responne cu nu refiute – E adesso un poco arricchiti, il cuore s’è ristretto, / e a questi poveretti che cercano aiuto / rispondiamo solo con un rifiuto”.
 
È facile riconoscersi nelle esperienze raccolte in queste poesie: nella dolorosa impotenza di chi non può continuare un discorso con una persona che non c’è più, nei ricordi che ritornano portati da un’arancia, na portahalle “il succo dolcissimo / e saporoso di mare”, o dalla carta della mortadella col suo “profumo di neve stipata”, nelle paure di fronte alla morte che restano immutate dall’infanzia in quanto connaturate al nostro essere creature: “pecché d’a scurde e d’i spirde e d’a morte / cume na criature ancora ancore me sckante? – perché del buio, degli spiriti e della morte / come un bambino ancora mi spavento?”.
 
A una poesia molto comunicativa corrispondono scelte stilistiche che, di volta in volta, aderiscono naturalmente alle immagini, senza rigidi schemi ma mescolando la metrica (prevalentemente endecasillabi, settenari e ottonari) nello stesso testo, usando rime per rimarcare alcuni passaggi o per ripercorrere antiche tradizioni (come nel testo A cruedda), alternando testi narrativi più lunghi ad altri molto brevi in cui, quasi in forma di aforisma, si condensa un problema esistenziale: “Hamma parlate de murte. / E hamma rise. / Tante. Tante / hamma rise / che sonne / asciute / i làcreme – Abbiamo parlato di morti. / E abbiamo riso / tanto. Tanto / abbiamo riso / che sono / spuntate / le lacrime”. Né vanno dimenticate le scelte linguistiche: oltre alla precedente raccolta nel dialetto di Ischitella, Frutte cirve e ammature (2001), Luciani ha scritto poesie in lingua, raccolte in Il paese e Torino (Salemi, 1985) e Tor Tre Teste e altre poesie (1968-2005) nelle Edizioni Cofine.
 
Nelle diverse raccolte molte poesie sono legate ai luoghi abitati o riguardano persone (tante le dediche), rimarcando un tratto caratteristico della poetica di Vincenzo Luciani: la condivisione della e nella parola, che ha senso soprattutto nel colloquio e, elemento non trascurabile, in un incontrarsi che ha sovente il buon sapore della convivialità e dell’amicizia, del pranzare insieme che fa sentire a casa perché “Nun gnè cannarutizije ma jè amore / quidde che trasce nganne e ‘o core tòzzele – Non è golosità ma è amore / quello che scende in gola e al cuore bussa”.
 
Si vive con gli altri, che danno spessore e nutrono con la loro presenza il nostro presente, e magari ci aiutano inaspettatamente in un momento di difficoltà, diventando fonte e destinatari di una comprensione poetica del mondo. Come, nel breve testo della raccolta Tor Tre Teste, la donna peruviana che, in tram, mostra al poeta un angolo buono per “vincere la bolgia / di spinte fiati urla / del quattrocentocinquantuno. / Ora ondeggiando le dedico dei versi / grati, sinceri che non leggerà”. O l’incontro con l’amico poeta Francesco Granatiero (pure lui pugliese emigrato in una Torino “spogliata di gente / che riso e pianto inghiotte / come fosse niente”), narrato in una poesia di Frutte cirve e ammature, dove il lungo dialogo intesse parole e idiomi e crea un microcosmo di quiete che, simile a un  grembo, avvolge il tempo attorno a loro: “e parlanne parlanne / u jurne a scurde jeve abburretanne / cume int’a na “irótte” – e parlando parlando / il giorno il buio riaggomitolava / come dentro una grotta”.
 
Nelvia Di Monte
 

Vincenzo Luciani, La cruedda, Edizioni Cofine, 2012