Joseph Tusiani fa così. Riceve poesie dagli amici, le scorre, qualcuna la traduce subito in inglese. Perché? Per ragioni che forse lui stesso non governa: un’intima consonanza di temi, esperienze, motivi; e una ragione più profonda, che richiama il Tusiani gran traduttore, prolifico, di poesia italiana in inglese: la tendenza ad appropriarsi, sotto specie di traduzione, di ciò che avverte affine al proprio sentire. In queste traduzioni, inaspettate, inviate all’amico Vincenzo il 30 novembre 2012, ci sono infatti motivi in più rispetto a quelli, in primo luogo amicali, che in passato gli fecero tradurre intere raccolte, come quella di Fernando Sembiante Signore, com’è viva questa morte! (How Lively, Lord, This Death of Mine Can Be!), o di Lina Manca Poesie. Poems, rispettivamente nel 1966 e 1974.
Qui le ragioni sono trasparenti. E in primo luogo i richiami classici a cui si presta “Vive”: l’amato Catullo di “Vivamus, mea Lesbia, atque amemus”, “Viviamo, o mia Lesbia, e amiamo”; e l’altrettanto amato Orazio e il suo concetto del fuggire del tempo, che lo colpisce “con lo stupendo fulmineo accostamento al terremoto dell’Aquila” (dice lui stesso all’autore), e che gli fa risuonare nella testa i versi a Leuconoe, nell’ode famosa: “Non chiedere, non è dato saperlo, quale fine gli dei / abbiano assegnato a me e a te”, fino al conclusivo carpe diem, con quella musicalità del metro asclepiadeo battuta dagli accenti: “Tù ne quaèsierìs, scìre nefàs, quèm mihi, quèm tibì / fìnem dì dederìnt”, che egli sente, e da cui è avvinto. E tutto questo ci riconduce a un altro aspetto del multiforme Tusiani, il noto e ugualmente prolifico poeta neolatino, sperimentatore di metri classici e moderni nella lingua antica.
Ma non è solo questo. La breve “Sckiteddane chiagnite” gli fa pensare a un epitaffio da Spoon River Anthology. L’altra ancor più concisa, “Cume a statije i jurne”, verte sul tema dell’appressarsi alla morte, costante nella produzione quadrilingue di Tusiani. E così l’ultima, dedicata alla scomparsa zia Felicetta, con tutte le memorie familiari che evoca nel traduttore, legatissimo al ricordo della propria nonna.
Ma ancora, non è solo questo. Il dialetto di Luciani certamente fa riaffiorare nel traduttore le serate garganiche del premio di poesia dialettale “Ischitella-P. Giannone” promosso da Luciani, alla cui prima edizione del 2004 Tusiani partecipò come lettore di propri versi – occasione che inoltre provocò un “Ricordo” della cittadina garganica contenuto nell’antologia 15 poeti per Ischitella del 2006 (ma va detto che da allora i “poeti per Ischitella” sono aumentati e superano la trentina) –. E c’è ancora il ricordo delle serate del luglio 2009 al castello normanno-svevo di Vico del Gargano, dove Tusiani offrì in lettura una scelta della propria produzione nelle lingue che usa.
L’invenzione, le figure, le situazioni create da Luciani dettano al Tusiani traduttore ritmi lunghi e brevi (equivalenti all’endecasillabo, al settenario italiani) nei quali egli è consumato; dettano rime che, pur non presenti esattamente nello stesso luogo dell’originale, cadono naturali a compenso di altre che sono andate perse, e sigillano bene, per esempio, Like summer days; una situazione tipica di paese, e di sapore leopardiano, ispira un tratto incisivo come è quello che riunisce in un pentametro e mezzo tre versi brevi di “Vive”, “e sotte u balecone / veje passà nu munne / che nun canosche cchiù”, below our balcony a world goes by / which I no longer know – forse una delle riflessioni più pregnanti della raccolta La cruedda (ed è facile collegare il balcone, e il mutare dell’ambiente di paese per chi ne vive lontano, alla sensibilità del traduttore verso il proprio stesso paese del Gargano, San Marco in Lamis).
Certo, non dobbiamo dimenticarci che Tusiani ha tradotto molti dialettali. Intanto, un altro contemporaneo pugliese, Angiuli. E poi i canonici Porta, Belli, Di Giacomo; e in aggiunta numerosi minori, nella versione inglese dell’antologia Il pane e la rosa, The Bread and the Rose, di Achille Serrao e Luigi Bonaffini. Ma nel caso di Luciani la chiave del tradurre sembra proprio essere la forte consonanza, la comunanza di oggetti, ambienti, pensieri, che di certo supera il desiderio di gratificare l’amico.
Cosma Siani
WHILE WE LIVE
Dear, let us love each other while we live,
for there is nothing after we are dead.
You’re sewing, I am writing;
below our balcony a world goes by,
which I no longer know;
day after day, like breath that follows breath,
all people disappear.
And so we too…a hundred years from now!
Then let us love each other while we live:
stop sewing. I’ll stop writing,
and let us grab each other’s hands.
Suddenly.
Like the earthquake of L’Aquila,
which seemed never to end.
Vive
Nenna, nuje ce hamma trattà vive
che dope a morte nun ce sta cchiù nnente.
Tu cusce, ji te guarde,
u tempe passe e nun te diche nente,
e sotte u balecone
veje passà nu munne
che nun canosche cchiù;
e gghjurne a gghjurne
cristiane ce ne vanne, sciusce a sciusce.
E pure nuje… Da mo’ a cent’anne!
E trattàmece mo’ che sime vive.
Tu lassa u cósce
e ji u scrive.
E stregnìmece i mane.
Allassacrese.
Accume jè state ’o tarramute
de L’Aquele. Che nun furneva maje.
DA VIVI – Cara, dobbiamo trattarci bene da vivi / che dopo morte non ci sta più niente / Tu cuci, io ti guardo, / il tempo passa e non ti dico niente / e sotto il balcone passa un mondo / che non conosco più / e giorno dopo giorno / le persone se ne vanno soffio dopo soffio. / E pure noi… Fra cent’anni! // E amiamoci adesso da vivi. / Tu lascia stare il cucire ed io lo scrivere. / E stringiamoci le mani. / All’improvviso. / Come è stato al terremoto / dell’Aquila. Che non finiva mai.
LIKE SUMMER DAYS
Like summer days
our years grow shorter now:
and what is far away
now is a lovely tale,
and what instead is near
is only fear.
Cume a statije i jurne
Cume a statije i jurne
mò ce accùrtene dd’anne
e quidde che jè lundane
mò jè nu belle cunte
e quidde che jè vucine
jè sbavende.
COME D’ESTATE I GIORNI – Come d’estate i giorni, / ora si accorciano gli anni: / e ciò che è lontano / ora è una favola bella / e ciò che è vicino / è sgomento.
CRY, FOLKS OF ISCHITELLA
Cry, folks of Ischitella, cry:
your jester now is gone–
a man who ridiculed an entire town
by death, that dirty bitch, has been undone.
You, women, come outside here in the street,
and with a sign of the cross a requiem sigh.
For all the joy he gave to each of you,
come, and to your Chillone say goodbye.
Sckiteddane chiagnite
Chiagnite, sckiteddane, chiagnite:
jè morte n’òmene burlere,
n’òmene che tutt’u pajese ha sfuttute
a morte zucculona l’ha futtute.
Oi fèmene, affacciàteve ’o capestrate,
signàteve e dicite n’orazione.
Pe’ tutta la prijezze che v’ha date
venite a salutà a Memine Chillone
ISCHITELLANI PIANGETE – Piangete, ischitellani, piangete: / è morto un uomo burlone, / un uomo che tutto il paese ha sfottuto / la morte, puttanona, l’ha fottuto. // Ehi donne, affacciatevi al capostrada, / segnatevi e dite un’orazione. / E per la contentezza che vi ha dato / venite a salutare
Mimmino Chillone.
AUNT FELICIA
When I go to the beach again
I know I will look up
to Aunt Felicia’s balcony.
She’s gone–
she too, who used to sing:
"To live,
without a care to live."
Zé Fulecette
Quanne che vaje a mmare
u sacce ch’hé tramente
sope sope a mangine
’o balecone de ziàneme,
ziàneme Fulecette. Ce n’jè gghiute.
Pure jesse. E cantave
“vivere
senza malingonia”.
ZIA FELICETTA – Quando andrò a mare / lo so che guarderò / su su a sinistra / al balcone di mia zia, / mia zia Felicetta. Se n’è andata. // Pure lei che cantava: / “vivere / senza malingonia”.