Prèime che ve’ le schìure  (Prima che venga il buio) di Pietro Civitareale

Recensione di Giancarla Pinaffo

 

Prima che venga il  buio/ vorrei rivederti un’altra volta/ per sapere se, di te, m’é rimasto/ qualcosa nel cuore/ o siamo diventati due persone/ che più non si conoscono/ ed ognuno va per la sua strada.//  N’àutra chéuse ulesse sapajje:/ se ju recuorde, che me ‘ngènne/ ju core, te’ nu funne de veretà/ o è sulamente nu suonne/ che me so’ ammentate p’avé/ quacchéuse da recurdà.//

Consapevolezza e perspicacia, sono due tra le molteplici predisposizioni che accomunano i poeti di ogni tempo, latitudine, lingua, sesso, età e sono  doti connaturali alla loro creatività. Pietro Civitareale ne conferma l’assunto. La sua nuova raccolta di versi in dialetto abruzzese, Prèime che ve’ le schìure (Prima che venga il buio), è l’ultima di una successione di pubblicazioni di poesia, e in lingua aulica e in lingua di culla ma non solo, anche opere in prosa, quindi  studi, antologie, traduzioni e testi di critica, il cui elenco completo è parte di  una personalità cuturalmente  eclettica.

Come rivela l’autore nella propria bibliografia, quest’ultima raccolta comprende poesie scritte tra gli anni 2013 e 2018 con gli inediti a questi anteriori. La lettura coinvolge e conferma con puntualità le predisposizioni sopra accennate. Per quanto attiene all’uso del dialetto è l’autore stesso ad ammettere che in poesia vi è l’esigenza di conservare l’identità antropologica, ancora partecipe nell’esistenza del poeta e messa in scacco dagli effetti omologanti della globalizzazione nel  suo conseguente contesto sociale e culturale.

Il buio indicato nel titolo è quindi la metafora di tale caducità, onnipresente nell’ordine delle cose già insite nella natura, ma pure in quelle dei  dolorosi  e indesiderati coinvolgimenti di percorso sociale. Ecco il fulgore della terra natìa innanzitutto, lasciata e mai dimenticata, anzi, tuttora riposta nelle proprie fibre di vita, desiderata così come i ricordi la conservano, con i suoi luoghi, colori ed il linguaggio afferente alla collettività; per contro la consapevolezza  che l’esistenza di tale spazio è paritetico alla caducità del proprio essere ed esistere: un dualismo che le liriche esprimono. Quande sarrà ju mumiénte,/ne’ m’aspette de truvà la viatezze/o la dannaziéune che se déice,/ma nu pustecijje sperdiute/alla fenetéure de ju munne,/addò le stelle rìdene ‘nciele/…e, quella del cuculo, è la sola voce/che si ode da quelle parti.//(Quande sarrà).

La sinteticità e la semplificazione dei tratti e dell’immagine -arte assai faticosa anche per i pittori- col tramite del linguaggio abruzzese è perfettamente riuscita alla creatività di Pietro Civitareale in questa sua ultima raccolta poetica, la quale non pone limiti personali alle visioni che ciascuna di queste poesie suggerisce. La casa non ha più /né porte né finestre/ e gli uccelli vi entrano/ e vi escono come/ se non esistesse più.//La zappe i la fàuce/ se so’ arruzzenéite / dentre ajju giardéine/che è deventate nu ‘ntréiche/ de fojje i de réme.//  (La case).  L’onda e la propria risacca, più o meno lunga l’una e l’altra conseguente, così come il momento creativo del poeta e la sua memoria poiché Quiste è nu tiémpe/ che nenn’è fatte pe’ penzà./ Uogge nse penze, se fa./ (Senza lìuce).

È un consapevole canto di rammarico per quanto di smarrito egli vive: non di soli ricordi quindi, ma dell’inconosciuto complesso antropologico in cui tali rimembranze sono state indotte ad immergersi, mentre il responsabile, Ju  mastre  è irreperibile e non gli  si palesa. Fulgore e morte, gioia e rammarico, canto e dolcezza, la filosofia dell’esistenza  rivelata con l’essenzialità di questo linguaggio, non iniziato sui quaderni di bellacopia, ma  come parlato dall’umanità nel quotidiano dei propri miraggi e sudore, all’interno di un  territorio, il proprio di nascita. Terra mia, ti mando un ultimo saluto./Il luogo dove nasciamo e quello dove /moriamo non è sempre lo stesso./La  véite è nu viajje i nen semme/niue a decìdere quande se parte i quande/s’arréive, addò cumenze i addò fenisce.//  (Terra majje). L’autore usa  sapientemente la chiave della leggerezza, ma per aprire crome e semibiscrome nella verifica e, mostrarci in controluce, quanto lontano possa condurre l’ombra lunga di un dito.

Pietro Civitareale, Prèime che ve’ le schìure  (Prima che venga il buio) , Roma, Edizioni Cofine, 2019.

 

Giancarla Pinaffo

 

 

Pubblicato il 31 dicembre 2019