Prende avvio oggi una rubrica a cura di Francesco Paolo Memmo che ospiterà con cadenza giornaliera una poesia di autori degni di essere ricordati.
Francesco Paolo Memmo è nato a Lanciano (Chieti) nel 1948 e vive a Roma. Dal 1971 al 1985 ha collaborato alle pagine culturali di “Paese Sera”. Ha pubblicato monografie critiche: Vittorio Sereni (Mursia, 1973), Invito alla lettura di Palazzeschi (Mursia, 1976), Pratolini (La Nuova Italia, 1977). Di Vasco Pratolini ha curato anche l’edizione delle opere nella collana «I Meridiani» di Mondadori. È anche autore di un Dizionario di metrica italiana (Edizioni dell’Ateneo, 1983). Come poeta ha esordito con L’inverso della norma (Umbria Editrice, 1975), cui hanno fatto seguito Varie destinazioni (Umbria Editrice, 1978), Nascita e dopo (edizione numerata fuori commercio, Roma, 1978), Le precipue funzioni (Quaderni di Messapo, 1980), La sezione aurea (Vallecchi, 1986), In via esplorativa (Il Ventaglio, 1991).
Nel 2023 ha pubblicato con Il Labirinto il volume riepilogativo Linea di basso ostinato. Le poesie 1971-1997.
Gianni Toti
In occasione del centenario dalla nascita di Gianni Toti (24 giugno 1924 – 8 gennaio 2007), [dia•foria ha pubblicato il primo volume della sua «Opera poetica», a cura di Francesco Muzzioli e Daniele Poletti e la collaborazione di Giovanni Fontana e della Biblioteca Totiana. Il volume comprende i testi editi fra il 1961 e il 1977. La poesia che oggi pubblico appartiene al decennio successivo.
Scrivendo e parlando di Toti, mi è capitato in altre occasioni di paragonare la sua poesia a quella di certi poeti duecenteschi che, alle origini appunto della nostra letteratura, nel momento in cui costruivano, in poesia, un nuovo mondo, e su quel mondo esprimevano un giudizio che era anche politico e morale, insieme ad esso costruivano un nuovo linguaggio. Quei poeti sapevano che per costruire un proprio mondo di linguaggio bisogna innanzitutto costruirsi un proprio linguaggio del mondo.
Ho sempre pensato che da questa disposizione di base nasca la poesia di Gianni Toti. Nel senso che Toti, gran funambolo della parola, che sembra faccia esplodere le parole col tritolo (se mi è concessa una metafora come questa in tempi come questi), in realtà tratta la lingua non come se esistesse una lingua e bisognasse distruggerla. Tratta la lingua come se questa si stesse ancora formando e bisognasse contribuire a formarla, magari spingendo in direzione contraria a quella che la lingua sta prendendo.
Solo in questo modo la lingua della poesia e quella che retoricamente chiamiamo la rappresentazione del mondo coincidono: nasce una lingua del mondo e un mondo della lingua. Il mondo, insomma, è significato dalla lingua; il mondo stesso si identifica col linguaggio; il mondo si forma, e si forma la storia, si formano gli uomini nella storia, attraverso la formazione di un linguaggio. Il quale non esiste in quanto tale una volta per tutte: esistono gli embrioni, le forme, gli elementi e dobbiamo essere noi a costruirlo, il linguaggio: come ci riesce, come vogliamo, come sappiamo, come più ci piace.
Operando sulla lingua, alle radici della lingua, e dunque radicalmente operando, Toti compie una operazione che è precisamente ideologica. Operando sulla lingua del mondo, Toti ci dà informazioni sullo stato del mondo, si pone e ci pone domande anche inquietanti, e afferma la nostra presenza nel mondo in quanto poeti e in quanto uomini, “poetantropi”, sapendo, come dice in alcuni splendidi versi, che “non ci saremo più – forse neppure / saremo stati – ma adesso siamo / scriviamo e irradiamo – corpi neri – / luce nera ma oscuro splendore”.
Il compito del poeta, oggi, si gioca tutto in questo non paradossale ossimoro che è la sostanza stessa della scrittura.