Poesie per un anno 98 – Nelo Risi

di Francesco Paolo Memmo

 

Nelo Risi (Milano, 21 aprile 1920 – Roma, 17 settembre 2015) pubblicò nel 1956 la sua prima organica raccolta di poesie, «Polso teso», ma già si era fatto conoscere a partire soprattutto dal 1952, quando Luciano Anceschi lo inserì in un’antologia, «Linea lombarda», nella quale riuniva sei poeti (Vittorio Sereni, Roberto Rebora, Giorgio Orelli, Renzo Modesti, Luciano Erba e, appunto, Risi) che avevano in comune, oltre al fatto di essere tutti lombardi o proprio per il fatto di essere lombardi, il perseguimento di una medesima idea di poesia, che Anceschi chiamò «poesia in re», cioè una poesia legata alle cose o, per meglio dire, una poesia che «si muove soprattutto alla sollecitazione degli oggetti del tempo, nasce da un reame di immagini quotidiane e fedeli in un’aria riservata di ripiegato sentimento».

Dal canto suo, Pasolini vedeva in questi lombardi un «prodotto dell’ermetismo», ma di «un ermetismo aggiornato nel senso che le istanze realistiche degli ultimi anni lo hanno turbato, ma riconducendolo alla sua anteriore e profonda natura espressionistica».

Cioè: questi poeti – contrariamente a quanto avevano fatto i cosiddetti neorealisti, almeno nei loro elementi meno culturalmente dotati – non avevano rinnegato i maestri del più recente passato (Ungaretti e Montale, soprattutto Montale, e attraverso di lui i crepuscolari, risalendo all’indietro magari fino a Pascoli), anzi se ne erano fieramente nutriti, per aggiornarne la lezione alla luce di quelle che Pasolini chiamava «le istanze realistiche degli ultimi anni».

Ebbene, di questo gruppo di poeti Risi è quello che più di tutti rivela da un lato il legame col passato (e fra i suoi maestri personali aggiungiamoci Jahier e Rebora, per fare solo due nomi), dall’altro l’adesione al clima poetico del tempo. Perché Risi si configura e vuole consapevolmente proporsi come poeta pubblico, proprio alla maniera dei neorealisti, ma in una dimensione e su un versante diversi. Alla base della sua poetica c’è in primo luogo un moralismo tutto lombardo (d’ascendenza pariniana, s’è detto) che si traduce in un’acre e tagliente volontà e capacità di giudizio, in un umore aspro e risentito, nell’assoluta mancanza di reticenza, nella passione civile che sa farsi satira e invettiva rabbiosa, solo corretta da un’abbondante dose d’ironia e di autoironia.

«Sono – ha scritto Risi – per una poesia civile fatta da un uomo pubblico in un tempo reale, sono per un linguaggio tutto teso che sia di per sé azione; voglio parlare di quello che ci offende, scrivere di quello che ci indigna».

Ed è sua, in versi questa volta, una delle più belle definizioni della poesia che mi sia capitato di leggere: «la poesia è verità / intuita con ritmo». Dove verità è verità della ragione, verità da ricercare «Dentro la sostanza» (un altro suo titolo, del ’65), «smania violenta» di «agire e volere in virtù della sola / ragione unicamente credere».

La sua è allora, come sostiene giustamente Raboni, «una poesia essenzialmente non metaforica; una poesia nella quale il detto prevale comunque sul non detto, il nero sul bianco, la chiarezza sull’ambiguità, il piano sullo spessore, l’univocità sulla polivalenza»; anche quando, aggiungo, ai temi pubblici si sostituiscono quelli privati (come ad esempio in «Amica mia nemica», del ’76), ben sapendo comunque Risi che: «Se occorre arte perché siano vere / le parole rare / forse più ne occorre / per essere stilisti dell’usuale». Che è una nuova dichiarazione di poetica, come si vede, espressa nella forma a lui più congeniale dell’epigramma.

«Tutte le poesie» di Risi si leggono ora in un volume degli Oscar Moderni Baobab della Mondadori uscito nel 2020 per le cure di Maurizio Cucchi.