Poesie per un anno 93 – Marino Piazzolla

di Francesco Paolo Memmo

 

Marino Piazzolla (16 aprile 1910 – 22 giugno 1985) è stato un intellettuale poliedrico come pochi altri nel panorama della cultura italiana novecentesca: artista, critico d’arte, polemista, narratore, favolista e, prima ancora, filosofo. Poeta, ovviamente. Capace di esprimersi nei più diversi registri: lirico, drammatico, satirico.

Nella sua formazione furono decisivi gli anni trascorsi in Francia, fra il 1931 e il 1940, con la frequentazione dei poeti surrealisti (Breton, Eluard).

Tornato in Italia, si stabilì nel 1945 a Roma, dividendosi tra l’insegnamento della storia e della filosofia nei licei e il costante lavoro critico e creativo.

Come poeta aveva esordito nel 1939 con due raccolte scritte in francese; ne seguirono poi, in italiano, molte altre fino alle due del 1984 («Un po’ meraviglioso» e «Sinfonie», entrambe per le Edizioni dell’Albatro) e a «Il pianeta nero» (1985), che fece appena in tempo a vedere stampato.

Di questo singolarissimo scrittore voglio però, quasi per scommessa, citare un paio di testi tratti da una raccolta – certo, l’operazione più bizzarra da lui compiuta, debitrice della teoria e della pratica lettrista di Isidore Isou e Gabriel Pomerand – cui lavorò negli ultimi anni di vita: «Hudèmata», pubblicata nel 1986 da Fermenti.

Sono poesie scritte in una lingua inventata ma in cui si ritrovano, accanto a suoni onomatopeici in cui significante e significato coincidono, lacerti di greco, di latino, del suo dialetto dauno (Piazzolla era nato in provincia di Foggia) e di chissà quali altre, misteriose lingue.

«Non bisogna certo nascondersi lo sconcerto di una simile operazione: il continuo slittamento semantico in un Oltre indefinibile frustra il lettore, lo avvilisce, non consegnandogli mai significati utilizzabili nella sfera affettiva, o culturale stricto sensu», scrive il prefatore Donato Di Stasi, «eppure consegue da queste poesie in lingua misteriosa una fascinazione straordinaria, talvolta stravagante, perché si è condotti all’interno di dimensioni non più esplorate (il sacro, l’originario), che si offrono come specchi della realtà, all’inizio vuoti, ma con il proseguire della lettura sempre meno indecifrabili e monotoni. Anzi, a un tratto, le parole dispiegano inusitate aperture, lasciano affiorare condizioni rimosse, evocano articolazioni dell’essere accantonati ormai nei reperti d’antan».

E ci si può abbandonare, come in questo caso, al canto degli uccelli in una foresta.