Esattamente quarant’anni fa moriva suicida, a soli 31 anni, gettandosi dalla finestra di casa sua, a Roma, Beppe Salvia (10 ottobre 1954 – 6 aprile 1985), uno dei poeti più significativi della sua (e mia) generazione.
La sua vicenda esistenziale, umana e culturale, è ora ricostruita nel bel libro, fresco di stampa, di Nicola Bultrini («Vita e morte d’un poeta», Fazi, 2025) che è la biografia non solo di Salvia ma dell’intero gruppo di poeti che animarono, all’inizio degli anni Ottanta, la scena letteraria romana come fondatori, redattori o collaboratori di «Prato pagano» (l’almanacco annuale la cui anima fu Gabriella Sica) e di «Braci» (1980-1984), la rivista che Salvia contribuì a fondare insieme a Claudio Damiani, Gino Scartaghiande, Marco Lodoli, Arnaldo Colasanti, Giuseppe Salvatori.
Salvia aveva pubblicato le sue prime poesie su «Nuovi Argomenti» nel 1976. Nel secondo numero di «Prato Pagano» (1980) apparvero le «Lettere musive» (un gruppo di quindici poesie). Poco dopo la sua morte, con lo pseudonimo di Elisa Sansovino, uscì la raccolta «Estate» (Il Melograno – Abete Edizioni, 1985).
Nel 1988 Arnaldo Colasanti curò per l’editore Rotundo il volume «Cuore. Cieli celesti», ristampato nel 2021 da Interno Poesia per le cure di Sabrina Stroppa. Seguirono poi «Elemosine eleusine» (Edizioni della Cometa, 1989) e il riepilogativo «I begli occhi del ladro», a cura di Pasquale Di Palmo (Il Ponte del Sale, 2004). E poi ancora: «Un solitario amore», a cura di Flavia Giacomozzi e Emanuele Trevi (Fandango, 2066), che ripropone gran parte della produzione poetica di Salvia
È una poesia, quella di Salvia, che con un linguaggio secco e scolpito riesce a esprimere compiutamente il disagio, la sofferenza, infine la disperazione di un giovane che sa di potere amare ma non pensa di essere abbastanza riamato dalla vita e non ha paura di confessare tutte le proprie debolezze e contraddizioni.
«Ho offeso con la mia stupidità / la legge della vita, l’infinita innocenza / della sua crudeltà. Adesso ho un cuore / nobile ma la mia carne è pietra. // e imparo da solo con stenti l’errore / d’esser solo», scrive in “Ninfale” E ancora, nella stessa poesia: «Conosco adesso il tempo certo / degli abissi e la parola povera / della vita, e l’esclusione e l’essere / e il pentimento e la colpa. e tutto / dura nel mio corpo eterno, e io / non posso amare senza amore / non posso soffrire senza dolore. / Ceneri del nostro tempo gli evidenti / abissi del dubbio e l’assoluto». Subito dopo ammetteva di avere una grande paura ma anche riconosceva a sé stesso «il coraggio / di esistere». Che a un certo punto non lo sorresse più.