Con la raccolta da cui traggo la poesia che oggi pubblico, Clemente di Leo (30 marzo 1946 – 5 luglio 1970) ricevette il premio “La Madia d’oro”, che gli fu consegnato il 4 luglio 1970 all’Aquila.
Tornato a Colledimacine, il paesino in provincia di Chieti dove era nato e dove viveva, festeggiò con gli amici, certo esagerando – lui che soffriva di una grave malformazione cardiaca – con le libagioni. Morì durante la notte.
Aveva ventiquattro anni e già aveva scritto migliaia di versi solo in parte pubblicati a proprie spese (un’ampia scelta è leggibile in «Poesie», a cura di Laura Romani e prefazione di Giuliano Manacorda, Bastogi 1985).
Negli anni, sia pur circoscritto all’Abruzzo, è nato un piccolo culto per di Leo, per la sua opera e per la sua vita di autodidatta con la licenza elementare e dalle molte letture: ne è testimonianza il volume «Un nome tra le pietre. Per Clemente di Leo», a cura di Pina Allegrini e Marilia Bonincontro, Noubs, 1996.
Quel che mi colpisce in Clemente di Leo è la sua assoluta fedeltà alla poesia, la convinzione che tutta la vita si esaurisce nella poesia e che solo nella poesia vale la pena di vivere, perché la poesia è tutto e può risarcire di tutti i dolori e di tutte le ferite. Scrivere, quindi, è una necessità. Serve per il presente e a futura memoria. Perciò bisogna scrivere sempre, e tanto.
Perché «tanto lo so che muoio giovane», disse a Pina Allegrini qualche mese prima di andarsene per sempre.