Poesie per un anno 109 – Adriano Spatola

di Francesco Paolo Memmo

 

L’intera produzione poetica di Adriano Spatola (4 maggio 1941 – 23 novembre 1988), disseminata in una miriade di pubblicazioni prima di difficile reperibilità, dal 2020 è riunita in un corposo volume di oltre 500 pagine semplicemente intitolato «Opera», curato da Giovanni Fontana per [dia•foria e corredato da un’appendice fotografica e da un CD audio. Perché Spatola fu poeta davvero totale: lineare, visivo, sonoro, performativo, concreto, intermediale, ma sempre poeta che crede nella poesia come organismo autosufficiente.

Quando scrive nell’ultimo verso del «Notturno in versi sulla poesia» (in «La piegatura del foglio», 1983): «Ah ma la poesia non ha bisogno di niente» vuole appunto dire che la poesia non ha bisogno di nient’altro che di sé stessa, e cioè che tutto si esaurisce in essa e nel linguaggio che il poeta costruisce: «Scrivere significa costruire il linguaggio, non spiegarlo», è la frase di Max Bense che Spatola pone in epigrafe alla seconda edizione di «Zeroglifico» (Geiger, 1975).

La raccolta da cui traggo il testo che oggi pubblico («La piegatura del foglio», Guida, 1983) è arricchita da una Introduzione di Guido Guglielmi che in questi elementi riassume i caratteri della poesia di Spatola: «Gusto della parola come formula incantatoria, piacere delle tautologie, dei paradossi, dei “sophismes magiques”, dilatazione fonica […]. Spatola persegue il disparato, sfrutta i dislivelli tra parole, ricerca le dissomiglianze, i rapporti stridenti». La sua poesia, conclude Guglielmi, possiede una vitalità che «è sì un modo di comunicare, ma è preliminarmente soprattutto un modo di generare la situazione comunicativa».