Poesie per un anno 107 – Franco Matacotta

di Francesco Paolo Memmo

 

Franco Matacotta (11 ottobre 1916 – 1º maggio 1978), marchigiano di Fermo, dopo aver esordito nel 1941 con i «Poemetti (1936-1940)», raccolse le poesie del decennio 1942-1952 in due raccolte pubblicate con lo pseudonimo di Francesco Monterosso («Fisarmonica rossa», 1945, e «Canzoniere di libertà», 1953) nelle quali cantò i temi di quell’epoca (la guerra, la Resistenza, le lotte operaie) rinunciando intenzionalmente a qualsiasi forma di mediazione letteraria: le sue poesie sono inni, cori, assumono la forma della ballata, della cantilena, della filastrocca: esprimono la speranza di un popolo gravato da prove durissime e però anche la rabbia e la delusione provocate dal vedere che non tutti i miti del tempo di lotta sono destinati ad avverarsi: «Il collo del popolo è appeso / di nuovo all’antica catena / di nuovo lo sgherro gli ha offeso / col marchio di fuoco la schiena», dice nel «Lamento del partigiano reduce».

Questo tipo di poesia – ripeto: intenzionalmente povera – è stata scambiata per una poesia priva di qualsiasi supporto stilistico. Mentre viceversa Matacotta è poeta che sa benissimo usare gli strumenti della letteratura, come ha dimostrato nei suoi ultimi due libri, usciti quasi clandestinamente, «La peste di Milano» (1975) e «Canzoniere d’amore» (1977), nei quali anche si ripiega su temi intimi e privati (l’amore, la morte del figlio).

Oggi però voglio porre ancora una volta al centro della riflessione quello che io considero il suo libro più importante, il più sofferto e nuovo: i «Versi copernicani» che, usciti nel 1957, erano stati sollecitati dai fatti d’Ungheria del novembre dell’anno prima: «Quelle piccole cose d’Ungheria / piccole come piccola la morte / dentro i giovani occhi», e cioè la rivolta antistalinista di Budapest che segnò una svolta decisiva per l’intera storia europea del dopoguerra e soprattutto per la coscienza di chi di certi valori si era nutrito e per essi aveva lottato, nel doppio esercizio della propria professione di uomo e di poeta. Un fatto traumatico come nessun altro: appunto, una vera e propria rivoluzione copernicana.

Sottolineo un aspetto apparentemente marginale, ma significativo: i «Versi copernicani» portano una dedica a Vasco Pratolini, che di Matacotta è stato l’amico di tutta una vita. Ebbene Pratolini solo due anni prima, nel 1955, aveva pubblicato «Metello», il romanzo che poteva riproporre come attuali l’ottimismo e la fiducia di un muratore di fine Ottocento che, pur avendo ben chiaro in mente che la storia avrebbe riservato lutti e amarezze, tuttavia poteva guardare al «sol dell’avvenire» come a una certezza, con la convinzione che la vittoria sarebbe prima o poi arrivata.

Ed ecco che solo l’anno dopo, nel 1956, tutto questo sembra non essere più vero. I fatti d’Ungheria, annullando la speranza l’ottimismo la fiducia, mettono in crisi paurosa e irreversibile un intero sistema di valori. E i «Versi copernicani» sono la prima testimonianza letteraria di quella crisi e di quella lacerazione.

Matacotta rifiuta il dogmatismo, il burocratismo, il fallimento di un apparato che si dimostra tanto feroce quanto inadeguato a comprendere il senso delle trasformazioni in atto (non a caso, in epigrafe, a suonare da monito, è il lapidario verso di Majakovskij: «L’inavvertito sonno può causare incendi»); di fronte ai ragazzi ungheresi che combattono per la libertà e resistono ai carri armati russi, lui che ragazzo aveva fatto la Resistenza si schiera senza mezze misure dalla loro parte; e tuttavia non rinnega i valori ai quali ha sempre creduto, la fede che sin dall’inizio lo ha ispirato, identificata con la speranza («Io spero, credo») e con la «luce», che è precisamente quella libertà che adesso sente violentemente negata: «Ecco perché io dico luce, l’uomo / troppo sovente se ne scorda, guarda / senza vedere, muto al proprio senso».

Ma proprio per questo, in un libro che denuncia un mortale malessere e si fa carico di tutte le colpe della storia, Matacotta non ha bisogno di fare capriole o salti mortali, non deve abiurare: i valori rimangono quelli, inalienabili, già cantati in «Fisarmonica rossa», il suo libro del ’45; valgono ancora le parole conclusive di quella raccolta («Essere puri questo è il segreto»), se è vero che esse riecheggiano in queste altre, del libro di cui stiamo parlando: «Solo chi ha visto ed ha capito è puro». E allora non fa meraviglia che i «Versi copernicani» siano stati, al loro apparire, o ignorati o addirittura sbeffeggiati, da sinistra come da destra: da chi considerò quel libro come una sorta di tradimento e da chi, viceversa, gli rimproverò di non aver rinunciato ancora all’ideologia. Questo è stato, per molti, il peccato capitale di Matacotta: l’aver egli sempre pensato che non può esistere poesia che non sia portatrice di una precisa idea del mondo, che non attraversi il fuoco e il fango della storia senza paura di bruciarsi o contaminarsi.