Poesia in Ligure tra Novecento e Duemila di Alessandro Guasoni

Recensione di Maria Gabriella Canfarelli

 

La disamina dell’evoluzione del linguaggio poetico d’una regione, nell’antologia Poesia in Ligure tra Novecento e Duemila (Cofine, 2019), si fonda sulla scelta di autori con cui potere “documentare a sufficienza lo sviluppo della letteratura ligure nei diversi momenti storici”, scrive in premessa il curatore Alessandro Guasoni. In sintesi, si tratta di un percorso storico-letterario a carattere divulgativo su vita e opere di tali selezionati autori,  tramite schede biobibliografiche e note critiche che argomentano intorno alle influenze stilistiche, alle scelte tematiche, ai retaggi socio-culturali (la tradizione, le suggestioni melodrammatiche, e loro superamento) in due distinte parti, Poeti genovesi e Poeti delle due Riviere.

Nella prima si tratta di Carlo Malinverni (1855-1922), “autore modesto ma di chiare visioni”, cui va il merito di avere caratterizzato la poesia genovese “come fatto culturale autonomo”. Segue Italo Maria Angeloni (1876-1957), di vent’anni più giovane, e la sua versificazione dal “taglio rapido, moderno, nervoso” sebbene il tema tardo-romantico esemplato in questi, come altri suoi versi: “T’asseunno tutte e neutte, ti capisci? / E t’arrecovio aloa streita in scio cheu (Ti sogno tutte le notti, capisci?/E ti coccolo allora stretta sul cuore), cifra lirico- nostalgica che appartiene anche a Silvio Opisso (1884-1965), autore peraltro di canzoni in napoletano e in genovese “esportate verso le Americhe, specie quelle del Sud, a beneficio degli emigrati”.

Un’altra stagione si apre con Edoardo Firpo (1889-1957),  “ che ha esercitato (…) una profonda influenza sugli autori genovesi del secondo Novecento”, e che al sentimento della natura affianca la consapevolezza della caducità, del provvisorio, del mutamento: unn’onda / verso o silençio d’unna riva morta mòrta (un’onda /verso il silenzio di una riva morta). Tra i suoi estimatori e seguaci sono annoverati Sandro Patrone (1917- 2004) “che gli fu molto vicino (…) nella grande attenzione alle piccole cose della vita” e Vito Elio Petrucci (1923-2002), tra l’altro commediografo, regista teatrale e radiofonico.

Anche nell’unica raccolta di Carlo Domingo Adamoli (uscita nel 1944) è tangibile “la sensazione di imminente fine di un mondo”,  il sentore “di disfacimento e di decadenza” di un noi-foglie  che Cazzan da- i rammi lentamente (Cadono dai rami lentamente), metafora e presentimento della fine che Guido Nilsen (1893- 1964) paragona a Unn’onda de sospii e un lamento del mare-vita che si frange, e che per Rosita Del Buono Boero (1906-1997) è una Cara de neutte (Carezza notturna) leggera e doçe/ in sce’ n brasso ò ’na man (leggera e dolce, / su di un braccio o una mano): versi a esempio di una “lirica schietta, intessuta di immagini originali e delicate”. Gli elementi naturali dell’acqua e dell’aria ( il mare e il vento) sono reiterata metafora poetico-esistenziale,  se ne registra la diffusa presenza in quasi tutta la produzione autoriale presa in esame, pochissime le eccezioni; a introdurre “nuovi stimoli” è Giuliano Balestreri (1910-1969) che traspose nei suoi versi echi d’atmosfere d’oltreoceano nella vita di ogni giorno e nel contesto natìo tra cui in Harlem, da San Giulian (Harlem, da San Giuliano): Scì, o pianista o sunnava Gershwin/e de feua gh’ea l’inverno /vegnuo improvviso/doppo na stae tròppo cada (Sì, il pianista suonava Ghershwin/e fuori c’era l’inverno/venuto improvvisamente/ dopo un’estate troppo calda).

Asciuttezza formale che esalta con immediatezza, con nitore espressivo il passaggio da una stagione all’altra, cifra rigorosa e schietta che sottolinea la “vanità degli sforzi umani” di cui scrive Guasoni a proposito di Sergio Sileri (1919-1983), e attraverso cui esprimere disincanto, disillusione e anche amarezza nei versi a carattere pedagogico di questo autore, Me mi retio (Io mi ritiro) e I euggi do diao (Gli occhi del diavolo), indirizzati agli uomini futuri.

Uguale empito socio-educativo anima la poesia di Angelo De Ferrari (1921-2013) che osserva, stigmatizza in Riflescion ( Riflessione) e Pòrto saervago (Porto selvatico) la perdita dei valori civili fondanti la città, la decadenza etico-morale quale sintomo certo di smarrimento. Realismo asciutto, certo, ma ancor più cupo e pessimista è nella ricerca di Roberto Giannoni (1934-2016), il suo scavare in profondità “in una specie di memoria collettiva cittadina” dunque nel destino dell’uomo vittima della stessa decadenza sino alla totale sparizione “anche (…) nei ricordi di chi resta”. Studioso di letteratura in ligure e autore teatrale, di Plinio Guidoni (1922-1994) che “entrò in contatto con ambienti culturali assai diversi” è la cifra inquieta e il taglio visionario, misterico di alcune poesie: l’ambientazione  notturna non meno della rarefatta luce de O lampion; e Dialogo into caligo (Dialogo nella nebbia marina) rivolto a una indefinita alterità, per cui il poeta sembra stia di fronte “a una verità che sta al di là del mondo sensibile”, alle mute ombre.

Il paesaggio genovese è descritto minutamente anche quando si tratta di scorci, la natura è un soggetto trattato a vari livelli espressivi, spesso ha ruolo di specchio dell’umana condizione; ma il paesaggio rapidamente descritto da Daniele Domenico Caviglia (1956) “è appena accennato e il suo universo è simbolico, fatto di figure astratte e tuttavia rimandano a significati concreti”: è ancora la ricerca di senso della vita, è sentimento del tempo dato in forma di registrazione degli stati d’animo, il depositarsi di questo nel presente, nell’oggi che diventerà ricordo. La voce pacata di Andreina Solari (1956) ne prende atto: Ciù no temmo l’inverno feo/co-o seu sciou de zeo (Più non temo l’inverno austero/ col suo fiato di gelo); la voce rappresa da commozione e tenerezza familiare, filiale di Danila Olivieri (1955) si rivolge a un tu che si addormenta Ammiaoua a t’annia sfinia/ a seia, co-o seunno che o scancella/ a passoa con l’aa feria (Vedi… ora t’accoglie sfinita / la sera, con il sonno che cancella/il passero con l’ala ferita), la stessa trattenuta e pur dolente commozione de L’urtima partensa.

Intrisa del pensiero di Dio, dell’Universo è la poesia di Alessandro Guasoni (1958). Dalla terra al cielo ogni cosa è palpitante, vivo dialogo, corrispondenza tra il qui e l’altrove: A nuvia ch’a se mescia verso donde/scenta e oe do releuio, a tocca e arcae/gianche de l’aerta logia sovia e onde;/l’aegua a strixella lenta da-e canae// de’na fontana (la nuvola che si muove verso dove/ spariscono le ore dell’orologio, tocca le arcate/bianche dell’alta loggia sulle onde;/ l’acqua scorre lenta dalle cannelle// di una fontana). Come vivo, pulsante è il ricordo nei versi di Fiorenzo Toso (1962) autore antologie di letteratura ligure dalle origini a oggi, e traduttore. Con questo autore Guasoni apre alla produzione letteraria degli anni sessanta del secolo scorso, a una poesia che si ispira in modo personalissimo, originale ai grandi poeti Lorca Kavafis, Yeats, Montale. Qui l’immaterialità del ricordo diventa cosa concreta, tangibile, sensuale persino, pur nella compostezza descrittiva di certe strofe: Belli e despiae i nòstri zeughi servivan/ a fane intende d’ese carne viva, /sangue capaçe de giassà e confeze, / anime intrante à fondise e à godise (Belli e disperati i nostri giochi servivano/ a farci capire di essere carne viva,/ sangue capace di gelarsi e ribollire /anime che sanno fondersi e godersi). Un chiaro esempio di poesia dell’istante come folgorazione che sorprende e nel suo squarcio di lampo illumina una porzione di verità nascosta, è in Bruna Pedemonte (1963), che prova lo stupore di quando e o cheu o s’encanta ( il cuore s’incanta), e che descrive altri istanti lunghissimi,  che sommati l’uno sull’altro sono una notte intera di lotta e di disperazione: dolorosissima nei versi franti, brevi di “Lampedusa, 3 ottobre 2013”, in Quell’ota/che pescàvimo òmmi (Quell’ora che pescavamo uomini) nel mare ribollente, schiumoso, rabbioso drento e feua (dentro e fuori).

Anche Enrica Arvigo (1963) usa un linguaggio “tendenzialmente breve, spesso illuminato da brividi ultraterreni”, richiami; ma spostando lo sguardo sulla condizione umana, più precisamente sul genere femminile, il pensiero poetico di Noiatre sensa sciou scorrimmo o lampo/drento un scilençio amao/ pin de vento (noi senza fiato rincorriamo il lampo/ dentro un silenzio amaro/pieno di vento), è anch’esso dato come luce breve, offerta istantanea della verità di un destino sospeso tra solitudine e dimenticanza, lo stesso de A bugatta rossa (La bambola rossa) che l’aspeta lasciù, /into soieu (attende lassù,/nel solaio). Del “poeta di strada, musico autodidatta, fabbricante di tamburi”, così si autodefinisce Marco Carbone (1966), la mescolanza di tradizioni e culture diverse, quella giamaicana in particolare “ e i suoni del reggae”, contaminazione “che per le lingue è il solo modo per restare vive”. Ne conseguono versi compatti, martellanti e di denuncia delle ingiustizie del mondo globale e dello sfruttamento del neo-capitalismo, ovvero il grido di rivolta contro “tutti i crimini giustificae /da-o profitto”. Aperto il solco verso il rinnovamento, alcuni sperimentatori e studiosi lo concretizzano proprio a partire da ciò che è rimasto del vetero-linguaggio per giungere a un neo-linguaggio più ardito, diverso, al passo con i tempi anche, e non solo, recuperando della tradizione “gli avanzi che ci hanno lasciato le generazioni vissute prima”; è tra gli altri, il caso di Anselmo Roveda (1972), scrittore di libri per ragazzi e studioso di letteratura e tradizioni popolari. Le sue “poesie d’attualità rientrano (…) in quella tradizione di impegno civile, che è tipica della letteratura genovese”: significativo punto di incontro tra nuove forme poetiche e valori eterni.

 

Nella sezione “Poeti delle due Riviere”, Marcel Firpo (Mentone, 1876-1972) autore che raggiunge “i suoi risultati migliori in (…) un’immedesimazione panica nei misteri della terra e della campagna” e nella rappresentazione della natura tutta: in Marina d’enver lo sconquasso del mare provoca nell’autore, che col mare si identifica, sofferenza e pena. Filippo Rostan, nato a Ventimiglia (1896-1973), è poeta dalla “tenue ispirazione tardo crepuscolare”; modello che a sua volta rispecchia la modalità versificatoria dei “modelli neoprovenzali, introducendo nella modesta tradizione locale temi e toni (…) inconsueti”, come ad esempio nella poesia “Chi me dirà?”: domande, interrogativi sulla natura dell’anima ( Còse ti sei?Chi ti sei?)

Tra i rappresentanti della letteratura dialettale novecentesca, Cesare Vivaldi (1925-1999), “noto in Italia e all’estero” avviò la ricerca di “un mezzo espressivo (…) svincolato da ogni suggestione letteraria, nell’ambito del clima neorealista”. Versi come  A menestra co-o pisto a odora fòrte, oppure I òmi mangia in silensio à l’osteria, e anche O mé barba o l’è un òmo grande e groscio, richiamano temi usuali e riti quotidiani o periodici direttamente attinti dalla realtà comune.

Nelle composizioni di Giuseppe Cassinelli (1928-2017) “studioso di poeti liguri e finissimo critico letterario” la natura è spettacolo che suscita stupori e interrogativi; anche in questo autore, essa assume valore comparativo con il “fluire della vita” e con gli stati d’animo legati al ricordo. Si inscrive “tra i poeti liguri più noti a livello nazionale” Paolo Bertolani (1931-2007) che in pensiero e poesia intrattiene un rapporto di memoria con le persone a lui care “per non rompere il contatto”, il legame con gli uomini e anche con le cose che l’en spaì (sono sparite). Tema del ricordo, dunque, come tema di sopravvivenza e continuità generazionale; ma anche cifra di appartenenza, insieme al dialetto, a un dato contesto storico-sociale e familiare, nel caso del savonese Pietro Baccino (1940) la cui poetica si nutre dello “sguardo solidale verso gli oppressi, i calpestati, i dimenticati”. Per il mondo degli umili di cui fa parte la cerchia delle primarie affettività familiari, l’autore rivendica l’uso del dialetto come sola lingua capace di esprimere l’appartenenza a un luogo e a una storia personali.

Infine, di Maria Pia Viale (1958), i cui testi sono inediti in volume, la descrizione di quell’ora sospesa che è il crepuscolo (Lampescù), l’incontro tra l’ultima luce e l’inizio dell’ombra: versi semplici, quasi naif, delicati, che celano dietro una apparente levità stilistica l’eterna verità che tutti noi riguarda: A natura a ne mostra/o cammin, / ca non voremo gardà ( La natura ci mostra/la strada, / ma non vogliamo guardare).

 

Maria Gabriella Canfarelli

 

 

Alessandro Guasoni (Genova, 1958) ha collaborato a diverse riviste con poesie e saggi sulla letteratura dialettale italiana, tra cui EnnErre (Mi), DiversE Lingue (Ud), Gazzetta Ufficiale dei Dialetti (Ct) e il Babau (Ge) di cui è stato redattore. Per Il Secolo XIX  cura la rubrica di critica letteraria in genovese Voxe de Liguria. Tra i riconoscimenti ottenuti, il premio “Giacomo Floriani 2006” per la poesia edita e il “Pontedassio” 2000 e 2014 per la prosa in ligure. Ha pubblicato le raccolte di poesia L’òrto da madonna (1981), L’atra Zena (1993), A poula e a luna (1997), Carte da zeugo (2003), Cantegoe (2005), Contravenin (2008), Turchin (2016), Vixita à Palaçio Inrea (2018). Per la narrativa, Barcoin (2006), A-i rastelli de stelle (2012), per la saggistica Il ciarlatano (2009), Il Genovese in tasca (con F. Toso, 2010) e per il teatro Nuvie reusa a-o tramonto (1983). Dal 2018 collabora con l’Università di Innsbruck nell’ambito del progetto di dizionario online “GEPHRAS: das ABC genuesischer und italienischer Phraseme”