Per Vincenzo Scarpellino

Testimonianze dei poeti Paolo Procaccini, Laura Rainieri, Giovanna Giovannini, Patrizia Fanelli, Pier Mattia Tommasino e Rosangela Zoppi

Pubblichiamo qui di seguito le testimonianze di alcuni poeti lette in occasione dell’incontro sulla poesia di Vincenzo Scarpellino tenutosi il 9 dicembre 2009 presso la biblioteca Gianni Rodari (qui il resoconto)

PAOLO PROCACCINI

Avere tra le mani come ‘na foja ar vento di Vincenzo Scarpellino mi ha improvvisamente riportato un’immagine dalla memoria.
In un giardino di una villa patrizia un po’ distanti dalla sala dove si svolgeva il rituale della presentazione di davanti ar caminetto dell’amico Tommasino Filippi, ci mettemmo a parlare.
Ricordo perfettamente la sua voce particolare che scandiva le parole, le faceva arrivare nette, importanti, sicure. Era preciso nel parlare come nello scrivere.
Nulla si buttava via. Così sono i suoi sonetti. Colonne intagliate di un chiostro. Sulle quali si indovina la meticolosità dell’artigiano cesellatore, che con sublime pazienza ed amore vi ha scolpito i voli del pensiero, le piaghe della fantasia.
Ci si può leggere il risveglio improvviso nella notte per cambiare una parola con un altra più adatta, per sostituire la rima di un verso. Vincenzo scriveva per amore del romanesco e della gente alla quale cercava di spiegare l’inutilità dell’affannarsi appresso a falsi valori, perché la vera felicità è nel rispetto, è nella partecipazione sincera alle gioie ed ai dolori altrui.
Le poesie si scrivono col cuore e con la testa, altrimenti sono soltanto una sequenza di versi. Con la testa si bada alla forma, alla metrica, al suono delle parole, ad un’idea da sviluppare. Con il cuore si pone la musica dei nostri pensieri accordata con il diapason dell’anima del mondo.
Ricordo anche che mi raccontò della sua esperienza di essere tornato dalla caverna buia con una luce intensa nel fondo, comune a tutti coloro che sono scampati ad una morte prossima e sicura. Spesso negli anni ho recuperato questo film del nostro incontro.
In questi anni di poeta, operatore sul dialetto di Roma, conferenziere e collezionista di romaneschi, avrò letto qualche decina di migliaia di sonetti. In pochi autori si ritrova la grazia e la necessità che Vincenzo Scarpellino ha saputo porre nei suoi. Era il suo modo di essere vivo, di dare un senso alla sua presenza. Di questo lo ringraziamo.
 
LAURA RAINIERI
 
Ricordo gli occhi azzurri e vivacissimi di Vincenzo. La sua voglia di scrutare e interpretare il mondo che profluiva con integra passione nei sonetti a volte dolcissimi, a volte scorticanti come quelli del Belli che sommamente apprezzava.
Nella nascente Associazione Periferie si discuteva su tutto: un concetto, un verso, una rima, una virgola. Lui attizzava la discussione perché voleva capire. Lo incuriosiva, per esempio, la mia foga di allora alla ricerca di un’identità femminile in poesia, secondo il pensiero femminista della differenza di genere e del partire da sé. Le donne, dicevo, devono raccontarsi in prima persona, in una lingua nuova tutta da inventare!
Rideva e mi prendeva in giro: la lingua è la lingua per tutti, quella che la storia ci ha consegnato e su quella i poeti devono lavorare. Sbottava. No, replicavo, quella che usiamo è sessuata al maschile. Vuoi degli esempi?
La discussione poteva continuare in macchina quando, da vero cavaliere, mi dava un passaggio, poiché era notte e non era bene, a suo giudizio, che le donne andassero da sole in giro di notte. Spesso il diverbio sbolliva in una bella battuta alla romanesca e in una sana risata.
Mi ha insegnato a guardare al mondo con occhi disincantati, a leggere le dure verità anche dietro a gesti religiosi e generosi, attenendosi a una sua etica di verità fino alla fine. Con un comportamento così naturale come se con quel vestito ci fosse nato. Capace anche di leggerezza, di ironia, di infinita inaspettata dolcezza.
Ed  ecco una mia poesia a lui dedicata alcuni anni fa.
 
IN MEMORIA
 
                                          A Vincenzo Scarpellino
 
"Ho camminato con la testa rotta
tre passi avanti e due indietro"
e da sotto l’ occhialetto
ci fissavi come un indovino.
 
Lo sguardo che spoglia.
Caro Vincenzo.
Ma la voce come la mano
tremava per pudicizia nel giudizio -vero
marchiato a fuoco sul marmo.
 
Tremava la pronuncia
affidata ad ondine leggere che incalzano
come può, una fragile verità
non la tua incandescenza
che ha bucato il male.
 
Ma il tuo animo incerto
e pieghevole come di donna
traeva luce di sole
malinconia di stelle
da brevi fessure. Creavi i tuoi mondi.
 
Salutiamoci, poeta di fionda,
la mia nella tua mano ossuta.
 
 
GIOVANNA GIOVANNINI
 
A questo pensiero avverto subito il disagio di dover racchiudere (in piccola parte), e in poche parole, la figura di un uomo e di un poeta, la sua personalità e la sua poesia.
Ma poi, al riapparirmi della sua immagine sorridente, o crucciata, emozionata, partecipe e, in una sola parola, umanissima, tutto mi sembra così semplice e naturale, come semplice, naturale e vero era lui, Vincenzo Scarpellino; e umile, vorrei soprattutto aggiungere, di quella umiltà “sapiente”, che è solo dei migliori.
Una volta ebbe a dirmi: «Voi poeti, voi sì che lo siete…», suscitando il mio giusto disappunto.
Così era Vincenzo Scarpellino: autentico, sensibile, appassionato, nel linguaggio e nella scrittura.
Ecco allora un nodo che si scioglie: Vincenzo uomo e Vincenzo poeta sono strettamente congiunti (come non sempre accade). Le sue parole di poeta, libere da ogni sovrastruttura intellettualistica o artificiosa, sono veramente scaturite dal suo animo,dal suo impegno morale di uomo. Dico morale perché nella sua opera Foja ar vento sono evidenti una pulsione etica, un sentimento profondo e sofferto di denuncia e protesta sociali, che non sfuggono al lettore attento. Lo stesso poeta, in un suo toccante sonetto, si autodefinisce «voce de protesta».
Questa mi sembra, oggi, la piena attualità, oltre che la verità della poesia di Vincenzo Scarpellino, condotta dalla forza espressiva dei suoi versi: versi intensi, che emozionano nel profondo, ed invitano a riflettere.
In questo senso vogliamo ricordare Vincenzo Scarpellino (certi che lui lo gradirebbe!), oltre che con grande, caldissimo affetto.
 
 
PIER MATTIA TOMMASINO
 
In alcuni dizionari italo-arabi e italo-turchi della metà del Seicento, come quelli composti in Roma dal francescano Domenico Germano di Slesia e dal cappuccino Bernardo da Parigi, ho trovato tra i tanti “romanismi” la parola: scarpellino. Non scalpellino, attenzione. Ma scarpellino in romanesco. Di là dalle attestazioni di “dialetto romano” in questi testi, così lontani dagli studi storici sul dialetto di Roma, come lettore di poesia ho subito pensato a Vincenzo Scarpellino.
Non ho mai conosciuto Vincenzo e ciò che posso dire, in questa giornata di ricordo, si basa solo sulla lettura delle sue poesie. Tra i tanti libri che Vincenzo Luciani mi ha regalato conservo, con particolare affetto, anche la piccola antologia Foja ar vento. Nella presentazione di Achille Serrao, leggo: «Scarpellino ha scritto in lingua romanesca, leggeva le sue poesie come montando una pietra sull’altra – era forse nel cognome il destino del suo fabbricare – ».
Anche Achille, insomma, si era soffermato, sullo scarpello di Vincenzo, come è accaduto a me, molto tempo dopo, leggendo quei vecchi e strani dizionari stampati da Propaganda Fide. La poesia di Vincenzo, perché di vera poesia si tratta, nasce da uno scavo all’interno della pietra del sonetto, delle forme consegnate dalla tradizione.
Due cose mi hanno da sempre colpito nella sua poesia, o meglio nei modi della sua ispirazione: lo stupore per la bellezza del mondo e di Roma in particolare, e l’indignazione verso le bruttezze dell’uomo che abita il mondo, la natura, lo Stato, non come ospite rispettoso ma come usurpatore della natura e dell’altro uomo.
Stupore e indignazione sono del resto due facce della stessa medaglia, cioè dell’osservazione del mondo di chi, come i poeti dovrebbero, ha gli occhi aperti davanti alla realtà. Se lo stupore portava Scarpellino a un senso religioso nei confronti del creato, l’indignazione lo conduceva alla rivolta civile. Non c’è, dunque, cinismo mascherato da realismo nelle sue poesie civili, semmai una vena di malinconia, come già indicato ancora da Serrao.
L’eredità delle poesie di Vincenzo consistono in questo. Nella gentilezza dell’uomo stupito e del cittadino indignato, che non possono essere dimenticate da chi si professa poeta romanesco. Ce n’è bisogno, soprattutto di fronte all’Italia che la generazione di Scarpellino consegna alla nostra.
Mi associo, allora, alla richiesta di intitolare una via di Roma a Vincenzo, salutando con grande affetto la moglie Pina, o come mi viene voglia di chiamarla quando la incontro: Pinuccia. Per ricordare Vincenzo scelgo una poesia che esprime la sua forza e la gentilezza del suo carattere: “Fischia si vòi fischia”, a pagina 13 di Foja ar vento
 
 
ROSANGELA ZOPPI
 
Già nella sua prima raccolta di poesie Roma contro (sonetti per la maggior parte), pubblicata nel 1984, edizioni Rugantino, Vincenzo Scarpellino ci rende nota la sua intenzione di denunciare i mali della società moderna nel dialetto della capitale, il suo dialetto, che gli permette, non per scelta ma per innato bisogno e vocazione, di dire pane ar pane e vino ar vino.
Diciotto anni di intenso lavoro poetico, in cui egli dichiara apertis verbis tutto il suo amore per l’uomo, in cui ci rende partecipi del suo impegno civile, del suo senso di giustizia, della sua passione politica.
Scarpellino affronta a viso aperto chi se serve de miseria e d’ignoranza / pe dominà sur monno indisturbato. Ce l’ha con i signori della guerra, con coloro che sfruttano i più deboli usando l’arma del potere e dell’arroganza.
Nella seconda raccolta, Li governicoli, scritta a quattro mani con Luciano Luciani, il discorso politico di Scarpellino si allarga, diventa più coinvolgente; nella sua impietosa panoramica della politica italiana degli anni Ottanta, egli ci offre una visione sconfortante del nostro paese, sempre però volgendo uno sguardo benevolo e carezzevole al diseredato e al più debole. E nel fare questo, dichiara di non volere inchinarsi a nessuno, di essere pronto ad affrontare a viso aperto la ginìa che impera e addorme er monno.
Ciò che ci colpisce nella sua poesia è proprio la tigna, la determinazione di chi sa di lottare per una causa giusta, la forza di chi sa affrontare le avversità ed è pronto a combatterle nel quotidiano. Il vento che gli soffia contro potrà fischiare quanto vuole, ma alla fine dovrà arrendersi, perché si accorgerà di soffiare contro una solidissima roccia e allora andrà a fischiare altrove, pijanno un’antra strada.
L’ultima raccolta poetica di Scarpellino, Foja ar vento, a nostro giudizio la più rimarchevole per maturità espressiva e per contenuti, pur avvalendosi ancora della forma chiusa del sonetto, porta novità. E soprattutto restituisce dignità ad un componimento che, da Belli in poi, troppo spesso viene abusato e banalizzato.
In quest’ultima raccolta, pubblicata postuma, dominano la consapevolezza che i conti con la vita stanno per chiudersi, la coscienza di essere ’na foja ar vento, la convinzione che tutto si ripeterà e continuerà a ripetersi ancora e sempre.
Ma io chi so? – si chiede il poeta – che fo sopr’a sta tera? Si sente un granello de sabbia ner deserto e sa di far parte d’un disegno origginale, sa di stare dentro a na spruzzata de colore / confuso ne la scena univerzale.
Però la speranza in un ravvedimento dell’uomo resta, così come resta vivido l’amore, legato indissolubilmente al ricordo d’un grugnetto amato, mentretutto se perde, vola e scappa via.