Ombrie di Lilia Slomp Ferrari

Recensione e scelta di poesie di Maurizio Rossi

L’ombra, nell’immaginario collettivo, è assenza di luce, negatività, inquietudine, presenza indefinita e spesso incomunicabile. Nel mito o nelle religioni, l’ombra esprime una realtà al di fuori del mondo dei viventi- degli “illuminati” di coloro che usano la mente e la razionalità- e spesso comunica un vissuto ultrasensibile o il destino ultimo dell’uomo, dal quale mette in guardia. Non per nulla Jung tratta nella sua opera il significato dell’ombra- individuale e collettiva- nominandola come “un fratello oscuro eppure inseparabile da ciascuno di noi” un “negativo” individuale o sociale, con il quale confrontarsi per evitare di proiettarlo sugli altri: tale nomen permette una maggiore consapevolezza di sé, migliorandosi e crescendo autenticamente nelle relazioni con l’altro.

Questa premessa mi sembra importante, leggendo la silloge della Slomp Ferrari, scritta nel dialetto trentino che rende gli endecasillabi ancor più armoniosi e gradevoli, specie nella lettura ad alta voce.

Certamente l’Autrice conosce Jung e molto di più conosce se stessa; il suo intimo traspare sotto la superficie del lago, increspata dal suo giudicarsi come persona e poeta; infatti, “se un poeta non è, prima di tutto, giudice di sé stesso, non sarà mai un vero poeta…” afferma Elio Fox nella sua prefazione.

Ombra delle tue ombre è la tua storia/ lamento di culla alla scalata degli anni./…si strozza nella gola quel singhiozzo/ di creatura sola che si culla. (Feride). Se pure la vita, come “ombra di ombre” sembra imperscrutabile, l’Autrice lascia intravedere il dolore che le sanguina dentro – compagno dei giorni- anche se in solitudine attinge nell’io, nell’ombra, appunto, la nenia per cullarsi e confortarsi. Altre volte, sola, si lascia trasportare dalla leggerezza e dal movimento “ballo,/ ballo e ancora ballo la mia storia/ mentre il tempo punge la memoria.” Il ballo, nei miti e nelle religioni, sappiamo, è dialogo con il dio, abbandono alla propria ombra; il ballo per Lilia è condotto non da un cavaliere, ma dal vestito, il giustacuore fatto di stelle e di luna, tessuto sbrogliato dai gomitoli- i pensieri, le emozioni. E cos’è se non la Poesia? Per qualcuno anticamera della follia, per altri, per lei stessa, follia, che l’ha “fregada”- “falena vestita di bianco/ per dirmi qualcosa che viene…dal buio che più buio non si può.”

Ecco, dal buio pesto viene la Poesia e viene non per ingannare, ma per ammaliare, come falena vestita di bianco o sirena d’Odissea memoria; poi Lilia si accorge che ne è catturata e per quanti altri modi possa dire o fare la sua vita, in Poesia, e solo in essa, si dialoga con l’ombra, che se crediamo a Jung, è dotata di luce sua propria.

Tant’è che proprio dall’Ombrìa scaturiscono immagini luminose e piene di vita che contengono la natura, le stagioni dell’uomo, i desideri e le nostalgie, fuochi, braci, frasche di fiamma, vento.

Alata è anche la Poesia e le ali possono dar fastidio “tormentare gli equilibri/ attizzare le braci addormentate”; per questo il “pubblico della Poesia” – quando c’è – è incostante, si defila, se il Poeta si aliena troppo dalla terra nota, consueta, sicura; perché il volo richiama “il ballo/ della mantide religiosa sul fiore” : sappiamo quale trappola sia tale ballo, specie per la parte “maschile” che c’è in tutti e tutte- pragmatica, essenziale, diretta…Ma questo volare, il fare Poesia, non è liberare il chiacchiericcio, o cercare il perché e il percome dei comportamenti, l’attenzione a ciò che sembra meno essenziale, l’apparentemente ondivago: tutte cose che la “critica maschile” attribuisce alla donna; piuttosto è recuperare lo “smariment”, le “finestre spalancate di parole/pensate alla conquista dei colori./

Ecco una immagine della Poesia che la contiene tutta, suono, significato (parole), aria (finestra spalancata), colori, pensiero (emozioni e lavoro mentale), viaggio, meta (alla conquista di). E il dialetto assevera tale esperienza- la lingua dell’infanzia non inganna, specialmente da adulti- “una trafitta questa musica paesana/ che ci prende birbona nel dialetto,/…sfilza lunga lunga di parole/ cantora di una vita stentata.” ; non può ingannare perché racconta di una vita senza abbellimenti, senza giri di parole, con le cose essenziali- e non sempre- per vivere: eppure il dialetto contiene tante parole, perché tante sono le cose che si conoscono e si possiedono anche in povertà. E’ desiderabile, doveroso, affrancarsi – potendolo fare- da una vita stentata; senza dimenticare però, che la cuccagna sta nel cuore, nei sogni che aspettano sull’altalena di essere spinti /in su tra “i pensieri più alti / dell’albero trasognato/Lassù dove sta …l’ardimento della foglia che vola/ sicura da terra ai nidi di aria/…”

La Slomp ha scritto una silloge d’amore, senza quasi nominarlo, ma descrivendolo nelle sue declinazioni e manifestazioni; ricordandolo e rivivendolo in quell’”ombra di passi/ sul sentiero”…di chi “conosce la lingua delle fate/ i passi nel cielo degli aquiloni/…” Amore come “quel nostro andare da regina così lontano/ come volteggio di sogni sopra un fiore” ricordo sì, ma talmente vivido da suscitare il desiderio d’un nuovo contatto, come allora nei suoi quattro anni; amore di madre “quando penso ai crucci di mia nonna:/ quattordici figli appesi al suo grembiule/ d’amore arrotolato sotto la vigna./” Eppure, anche l’amore sembra oggi una storia immaginata “Senza grembi d’amore che si aprono/ a melodie di culla nell’incanto.” …oggi che sono perdute le strade dell’infanzia.

Ma nell’accarezzare la pietra, nei silenzi, nel guardare insieme la stessa stella, nel poetare la vita per vivere la poesia, la memoria guarda negli occhi la malinconia e non ne ha timore; la vita si carezza nell’aria, lì dove vola via; il domani ancora ha trame che possiamo inventare; la parola scritta sul foglio non smette di incantare, purché da quel foglio arrotolato possa rivivere la cerbottana per colpire l’ombrìa che la gà le strìe a cavalòt.

Il cerchio si chiude, il buio inspira la luce ed espira l’ombra.

 

Ombrìe

 

Sui dì che nasse zà piomba le ombrìe

entant che i pirla alti i aquiloni.

El par algéri quela forza strana

che te tegniva drit a l’entaròla:

na statua vècia, sgrìsoi de n’antana

endo se dindolava i barbustèi.

Per compagnia, demò le terlaìne

spontezade la sera da quei ragni

solagni, disperadi, senza cà.

Perché se ‘l sa che i ‘nsogni i è reménghi,

zaltroni, lusaròle de na vita.

Te credi de zugar a scondirola

coi rizzi spatuzzadi come ‘n pòpo

envezi che te ride da quel spègio

sbecà dal rosegar de le stagiòn

gh’è demò ‘l vènt che nina ‘l so sofion.

 

Ombre

Sui giorni che nascono già piombano le ombre/ intanto che prillano alti gli aquiloni./ Sembra ieri quella forza strana/ che ti teneva dritto alla salita:/ una statua vecchia, brividi di una soiffitta/ dove si dondolavano i pipistrelli./ Per compagnia, solo le ragnatele/ punteggiate la sera da quei ragni/ solitari, disperati, senza casa./ Perché si sa che i sogni sono raminghi,/ cialtroni, illusioni d’una vita./ Credi di giocare a nascondino/ coi ricci spettinati come un bimbo/ invece che ti ride da quello specchio/ sbeccato dal rosicchiare delle stagioni/ c’è solo il vento che culla il suo soffione.

 

 

 

Falò

 

De mi se vede ancòi demò la ciòma

che brusa coi zuèchi de le strìe

per en falò de luna malandrina.

Gò ancor na vèsta che riciama ‘l vènt

gò ancora en còr che fa le schiramèle

co enfizzar al zièl tute le stéle

a scarmenon nei pradi de la ment.

Descolza e nuda filo le stagiòn

co’ la me scorza che la sa de rasa.

Me sugo al sol, rebàlto su i me dì

che se deslìga a l’ora dei tramonti.

Son ancor mi, bedola spatuzzada,

endrézzo le fassine dei ricordi.

Bruso d’amor en l’ultima sfiamada.

 

Falò

 

Di me si vede oggi solo la chioma/ che brucia coi fuscelli delle streghe/ per un falò di luna malandrina./ Ho ancora un aveste che chiama il vento/ ho ancora un cuore che fa le capriole/ so infilare al cielo tutte le stelle/ sparse a pioggia nei prati della mente./ Scalza e nuda filo le stagioni/ con la mia scorza che sa di resina./ Mi asciugo al sole, capovolgo i miei giorni/ che si slegano all’ora dei tramonti./ Sono ancora io, betulla scarmigliata,/ intreccio le fascine dei ricordi./ Brucio d’amore nell’ultima fiammata.

 

 

 

 

Ombrìa

 

L’ombrìa la gà le strìe a cavalòt

quando la zuga ‘l sol co’ la su’ luna

l’è come la ciaméssa a la so cuna

inverni eprimavere ‘nté ‘n sangiot.

 

L’é come la scondéssa ‘nté ‘n gabiòt

le fòie de ‘n autun senza fortuna

comodàndole pian, una per una

vizìne come stéle al manaròt

 

che l’è calà sul zòc senza pietà

senza scoltar i zighi de la rasa.

La ‘ntòrtola la vèsta, senza fià

 

bosiàdra dentro ‘l sol che ‘l se la basa.

Smarlòssi ‘nruzenìdi a la so cà.

Dentro i soi òci brusa anca la dasa.

 

 

Ombra

 

L’ombra ha le streghe a cavallina/ quando gioca il sole con la sua luna/ è come chiamasse alla sua culla/ inverni e primavere in un singhiozzo.// E’ come nascondesse in un gabbiotto/ le foglie di un autunno senza fortuna/ sistemandole piano, una per una/ vicine come schegge alla mannaia// che è calata sul ciocco senza pietà/ senza ascoltare le grida della resina./ Attorciglia la veste, senza fiato// bugiarda dentro il sole che la bacia./ Lucchetti arrugginiti alla sua casa./ Dentro i suoi occhi brucia anche la frasca.

 

 

 

Fregada

 

Fregada, son stata fregada

da quela poesia che m’à chiznerada

na nòt de zòghi luméta sul prà.

Chi èl quel’ombrìa che spèta

sul fior de le fragole el ross

dei tramonti sui cròzzi, l’alba

che s’ciòca ‘ntél còr sognador?

Frgada, son stata fregada

da quela pavèla vestida de bianch

per dirme qualcòs che vèn da lontan,

dal stròf che pu stròf no se pòl.

 

 

Fregata

Fregata, sono stata fregata/ da quella poesia che mi ha cullata/ una notte di giochi lucciola sul prato./ Chi è quell’ombra che aspetta/ sul fiore delle fragole il rosso/ dei tramonti sulle crode, l’alba/ che brucia nel cuore sognatore?/ Fregata, sono stata fregata/ da quella falena vestita di bianco/ per dirmi qualcosa che viene da lontano/ dal buio che più buio non si può. 

 

 

 

Destràni

 

Ne spizzega le vene quel destràni

che ‘l gà ‘l saor de la malinconia.

Ancòi l’è squasi grop enté la gola

enté sto mondo ormai senza misura.

E basterìa na s’cianta de paura

per far cantar de nòf quele sortive

che pianze tèmpi ancora da ninar.

Se sentirì dentro la strovèra

la vòia de tegnirse anco per manifestazion,

de stofegàr la prèssa, quela fam

stampade dentro i òci de la zènt.

Destràni l’è na maschera de ‘nsògni,

la lagrima pianzuda da ‘n pierrot,

na scortaròla verso quei doman

che se destira al pass de’n orolòi

co’ le raze ‘mpiantade ‘nté ‘n sangiot.

 

Struggimento

 

Ci pizzica le vene quello struggimento/ che ha il sapore della malinconia./ Oggi è quasi groppo nella gola/ in questo mondo ormai senza misura./ E basterebbe un pizzico di paura/ per far cantar di nuovo quelle sorgenti/ che piangono tempi ancora da cullare./ Si sentirebbe dentro la tenebra/ la voglia di tenersi ancora per mano/ di soffocare la fretta, quella fame/ stampate dentro gli occhi della gente./ Struggimento è una maschera di sogni,/ la lacrima pianta da un pierrot,/ una scorciatoia verso quei domani/ che si stirano al passo di un orologio/ con le lancette piantate in un singhiozzo.

 

Girasoi

 

En camp de girasoi sta vita,

la ne stontona come fusse vent

de autun begaròl de fòie morte,

paiazzo de colori spiazzaròi

endrezzadi a le erbe sora el prà

zalde anca lore come le paiòle,

le vòie mate, perse de l’istà.

Quanti sarai i girasoi al camp?

Quante èle le testòte che ride

picole, grande, le ne fa l’inchin

per slampezar de sol che se sparpaia

dentro le ociàde de giornade grise.

Ve regalo la me maia de fret,

o girasoi, el me capèl de paia.

 

Girasoli

Un campo di girasoli questa vita,/ ci strattona come fosse vento/ d’autunno litigioso di foglie morte,/ pagliaccio di colori bricconi/ intrecciati alle erbe sopra il prato/ gialle anche loro come le pagliuzze,/ le voglie matte, perse dell’estate./ Quanti saranno i girasoli al campo?/ Quante sono le testoline che ridono/ piccole, grandi, ci fanno l’inchino/per lampeggiare di sole che si sparpaglia/ dentro le occhiate di giornate grigie./ Vi regalo la mia maglia di freddo,/ o girasoli, il mio cappello di paglia.

 

Lilia Slomp Ferrari, Ombrìe, Ed. Del Leone, Venezia, 2012

 

Lilia Slomp Ferrari è nata e vive a Trento. E’ vicepresidente del “Cenacolo trentino di Cultura dialettale”, diretto da E. Fox. Ha conseguito numerosi premi per la sua poesia dialettale ein lingua. E’ stata pubblicata su varie riviste. Ha pubblicato: “En zerca de aquiloni” (1987), Schiramèle (1990), Nonostante tutto (1991), Controcanto (1993), Amor porèt (1995), Leggenda (1998), Striarìa (2002), All’ombra delle nove lune (2005), Come goccia di vetrata (2008). E’ presente anche sull’antologia “Dialect Poetry of Nothern and Central Italy”, Legas. Ed, N. Y. 2001.

 

Maurizio Rossi

 

pubblicato 9 marzo 2018