Nuove recensioni a La città del vento di Ombretta Ciurnelli di Roberto Pagan, Salvatore Di Marco, Salvatore Loleggio, Giampiero Mirabassi, Antonio Carlo Ponti, Grazia Stella Elia

Pubblichiamo qui di seguito altre recensioni a La citta del vento di Ombretta Ciurnelli di: Roberto Pagan, Salvatore Di Marco, Salvatore Loleggio, Giampiero Mirabassi, Antonio Carlo Ponti, Grazia Stella Elia,
 
“La città del vento” recensione di Roberto Pagan,
 
Singolare il destino di queste nostre antichissime città, abbarbicate in cima a un monte o una collina, sopravvissute su se stesse e le proprie macerie stratificate, stipate, dentro le mura, di vichi tortuosi, infiniti gradini, e torri smozzicate, nell’intrico di case che sovrappongono l’una all’altra le loro tegole sparse di licheni: accese di sole o di luna, corse da ombre bizzarre, sferzate dal vento che toglie il fiato d’estate per la calura, d’inverno per il gelo pungente.
Il caso più tipico è forse, appunto, Perugia: città vitalissima anche in tempi moderni, che per espandersi ha dovuto cingersi ai piedi di un anello d’asfalto: ma il centro antico non ha perso d’importanza, non si è ridotto a museo. Ben lo presagisce il forestiero che s’inerpica oggi su ingegnose scale semoventi, entrandovi dalle viscere antiche, dentro le costruzioni monumentali di un favoloso passato. Lassù si ritrova il respiro animato del Corso, la scenografia della Piazza, tra la Cattedrale e il Palazzo dei Priori, ravvivata dagli spruzzi della Fontana Maggiore; e resta il piacere di perdersi tra i borghi senza nome lungo gli assi viari, fino agli archi delle porte incastonate nelle mura.
Alla sua città, Ombretta Ciurnelli, perugina da sempre, dedica nel dialetto nativo questa sua silloge matura, La città del ventoPoesie in lingua perugina (Edizioni Cofine 2013): tributo d’amore e, insieme, breviario di riflessioni, regesto di emozioni e ricordi. La mappa del percorso, reale e ideale, ci si dispiega davanti fin dalle prime pagine: I vigole afogate de bujo / ‘l fiatone che chiappa ‘n sajita / le piazze che s’upron ta ‘l sole / le pietre ch’arconton la storia… (I vicoli affogati di buio / l’affanno che prende in salita / le piazze che si aprono al sole / le pietre che raccontano la storia).Come è vanitosa, questa città che, arrampicata sul colle, je sguillanto la schiena (gli scivola sulla schiena), mentre intorno c’è ‘n girotondo de monte a ‘rmiralla (un girotondo di montagne ad ammirarla). La presa non potrebbe essere più diretta. Ma Ombretta lavora poi caparbiamente ai suoi pannelli, che allinea uno dietro l’altro, in tre sezioni più o meno simmetriche, ma con angolature variate, poste all’insegna di qualche citazione emblematica: da Baudelaire, Penna, Calvino o da altri, che meno ti verrebbero in mente, Walter Binni o Aldo Capitini. Vi lavora concentrata, ma con scioltezza di tocchi rapidi e incisivi: come quei pittori impressionisti che riprendevano più e più volte i loro soggetti, nelle varie ore del giorno, nelle stagioni diverse. Così ecco Perugia all’alba (Abonora), quando sol che ‘no scopino /  cammina nsú e ngiú… e ntol grigio / dle pietre de la piazza / bianca se sveja la Fontana Granne (solo uno spazzino / cammina su e giù… e nel grigio / delle pietre della piazza / bianca si sveglia La Fontana Grande); o Perugia avvolta dalla nebbia, quando ‘n bilimbènza / nti tette sparijate / sguilla lenta / la nèbbia dla matina (sui tetti sfalsati / scivola lenta / la nebbia del mattino) / …e mmezz’al biancore / rado dla fumaja (in mezzo al biancore / rado della nebbiolina) / mucce impettito / il campanile aguzzo / per gì a ruballo / prima di quiantre: cioè il campanile a punta si protende per rubare il sole prima degli altri. Oppure in momenti festosi, quasi teatrali, quando la gente elegante si accalca nel passeggio. Si colgano insieme, per esempio, i suoni e i colori che affollano ‘L Corso: …i sone aguzze / che zzòffieno paure / l’aria di motte / ditte sol per dì (i suoni acuti/ che soffiano paure / il vento delle parole / dette soltanto per dire) e l’arlecchino dle maje nti scaline / ch’arconta ruzze / e ntrappla birbonate (e l’arlecchino / delle maglie sulle scalette / che racconta gioie / e nasconde birbonate). O, al contrario, sprofondiamo nella più smarrita solitudine dei vicoli, con qualche voce che risuona soffocata tra gli spigoli e gli anfratti perduti dell’ombra. Qui sarebbe tutta da citare Ntraùschie (Intrighi): Vigole che nunne scappe / ènno le strade /dua gni giorno camine / ncol tu freddo / dua gni pietra / bagaja j’arimbuldche (Vicoli da cui non esci / sono le strade / in cui ogni giorno cammini / con il tuo freddo / dove ogni pietra / grida le ingiustizie) … E l’urlo nto la gola / de qula mula / resta fogato / mmezzo a ji ntrauschie (l’urlo nella gola / di quella ragazza / resta affogato / in mezzo agli intrighi). Ove la grande immediatezza dello strumento linguistico è tutta al servizio di una intensa espressività. Perché c’è anche un impressionismo sonoro oltre a quello pittorico. Si veda l’efficacia di questo “diminuendo” in Figurte (Immagina): una dissolvenza di note in parentesi: (momò callato / ‘l solco di rimore / sol che na corda stracca / a sbatte fitto / ntol dondlà lento / dla barca ntla sera; efficacia di cui un poco si perde in traduzione: (ormai smorzata / la scia dei rumori / solo una sartia stanca / a sbattere fitto / nel dondolare lento / della barca nella sera).
Impressioni visive e auditive, svariare di ritmi con lo svariare dei sentimenti. Tout pour moi devient allégorie –  ci ricorda Baudelaire citato nell’esergo. E questo è altrettanto vero per l’autrice che dialoga con se stessa, si rapporta al passato (specie nella terza sezione del libro), riflette sulle sue emozioni. Una volta sorprende la sua immagine spaesata nel riflesso di una vetrina di pasticceria: Specchiata ntna vetrina / alfin m’artrovo / amischiata ta torqule / e torcijone ansiem ta l’ombra / de ‘n portone antico (Specchiata in un vetrina / infine mi ritrovo / mescolata a ciambelle / e torciglioni insieme all’ombra / di un portone antico).
Ma ritorna sempre protagonista la città, con i suoi oggetti, con le sue forme. E ancora vicoli, tetti, muri, scalinate percorse in affanno, sciabolate di luce in contrasto con l’ombra; e qualche volta, oltre le mura, la vista che spazia sulla vastità della pianura, giù giù fino al lago, oppure all’intorno verso la cerchia dei monti. E poi, di nuovo, la folla, i bambini, la gente che chiacchiera nelle strade, sorpresa all’improvviso dal rombo delle campane. Una poesia che nasce dalle cose e dallo sbrigliarsi dei sensi: che parte dall’oggetto e si fa via via soggettiva. Ma con naturalezza, senza troppi indugi e compiacimenti lirici o introspettivi. Paga di sé, del suo carico di suoni e colori ed emozioni. E infine, con piglio sbrigativo, non sai se più commossa o confusa, opponendo la sua (eccessiva?) sensibilità alla sordità altrui, si interroga in un paio di volute piene di energia espressiva: Ma che saronno ma’ / ste quattro pietre?…Tu nu lla scolte ma’ / l’aria del vento…? (Ma che saranno mai queste quattro pietre… Tu non l’ascolti mai / l’aria del vento…?). Discorso che continua felicemente nella pagina seguente in Pagne stese che prende abbrivio da una citazione di Calvino (Potrei dirti di quanti gradini sono le vie fatte a scale… ma so già che sarebbe come non dirti nulla). Ma meglio, più incisivamente, Ombretta: Potria ditte quant’ènno… / com’ènno … / tutt’i scalin / che sajono sualto… Potria arcontatte / de’n palazzo antico / di merlette che fònno / le fenestre… Ma pu l’acapireste / i pagne stese / e l’ora che s’accenne ‘na fenestra… (Potrei raccontarti quante sono / tutte le scalette che salgono in alto…/ Potrei raccontarti / di un palazzo antico / dei merletti che disegnano le finestre… Ma poi li capiresti / i panni stesi / e l’ora in cui si accende una finestra…).
Davvero un libro felice, questo di Ombretta Ciurnelli, per l’omogeneità intensa della scrittura, per la profonda coerenza tra intenzioni e risultati, per l’equilibrio arioso dell’impianto.
 
14 ottobre 2013
 
 
 “La città del vento” – recensione di Salvatore Di Marco
 
Dice Ombretta Ciurnelli nell’ultimo verso della lirica con la quale prende l’avvio e caratterizzandola questa sua quarta raccolta di poesie scritte nel dialetto di Perugia La città del vento che “na città già da lia è puisia” (“una città già da sé è poesia”). Il tema letterario non è nuovo, ma qui si tratta non soltanto di un’affermazione di tipo teorico, avente cioè valore di principio, e tuttavia abbastanza inconsueta e intrigante per le modalità del pronunciamento, ma – nel caso specifico – perché si propone come una vera e propria dichiarazione di poetica, o più precisamente, della “chiave di lettura” utile nell’approccio con ciascuna delle liriche di tutta la silloge.
Infatti la liricità dei testi poetici (la liricità, appunto, è la qualità essenziale di questi versi perugini) si dipana lentamente dalle suggestive “narrazioni” di eventi e di luoghi (strade, piazze, cortili, fontane, scalinate, tetti, giardini, alberi urbani, negozi e così via) che caratterizzano la sua emozionante “città del vento” che trasmuta da un componimento all’altro le proprie atmosfere trasognate in visioni dai riflessi concretamente realistici. E il vento che va e torna con le sue mille voci. “Tu nu lla scolte ma’ / l’aria del vento / che l’aligia / nti giorne nto le notte / dua sone aguzze… / fonne… cincischiate  (“Tu non l’ascolti mai l’aria del vento / che l’accarezza / nei giorni nelle notti… / dove suoni acuti… /cupi… stropicciati…”).
Il dialetto perugino, che la Ciurnelli ama definire lingua, dismette talune proprie asperità fonetiche e recupera una dolcezza e una sonorità pacate, quasi irrepetibili, che lo eleggono a vera e insostituibile lingua della sua poesia.
 
Tratto da “Rivista  italiana di letteratura dialettale”, Aprile-Settembre 2013, pag. 11.
 
 
“La città del vento” – recensione di Salvatore Loleggio
 
Una risposta è il titolo di una intensa e dilemmatica poesia che intorno al 1960 Franco Fortini dedicò a Valentino Bucchi, il musicista che dirigeva il conservatorio nel capoluogo umbro. Ha un attacco memorabile: “Ora mi scrivi / che a Perugia l’aria / è così secca d’inverno e tutta vento…”. Il più tipico e temuto vento perugino, la tramontana, qualche anno dopo fu collocato al centro di un libretto di memorie, in verità poeticissimo, da Walter Binni (La tramontana a Porta Sole). Ora Ombretta Ciurnelli, ne  La città del vento (Edizione Cofine, Roma, 2013) mette Perugia nella sua complessità (centro urbano e borghi contadini) al centro dell’immaginazione poetica e il vento c’è quasi sempre.
Ciurnelli, insegnante, appassionata di studi antropologici, critica fine, antologista, da poetessa ha scelto come lingua il “perugino” che si rifiuta di chiamare dialetto. Ha cominciato con una sorta di abbecedario giocoso (Badarellasse ncle parole, Guerra 2007), ha proseguito con un libro di racconti in versi, L’arcontastorie (Guerra, 2008), quasi sempre vicende di cronaca nera, in cui riesce a trascorrere dai modi grandguignoleschi della novella popolare naturalistica a certi passaggi incantati da “cantafavola”. Ora con questa Città del vento sembra mostrare fino in fondo ciò che può la lingua perugina: affronta la lirica, genere in cui il dialetto potrebbe – se non usato con misura – produrre effetti involontariamente comici; e sceglie l’idillio, seguendo le prescrizioni del nostro maggior poeta lirico, Leopardi. Costui spiegava che l’idillio antico era un quadretto, un sito, mentre l’idillio moderno, data la forza dell’io, non poteva essere che situ-azione, che rapporto tra io e sito attraverso la memoria e l’immaginazione, produttrici di vere avventure dello spirito. Gli esiti della sperimentazione di Ciurnelli a me sembrano di autentica bellezza e il perugino vi ha la stessa funzione che aveva la lingua trecentesca in Leopardi: produce una patina d’antico, un effetto di lontananza. Cito solo qualche titolo per non togliere il gusto della scoperta: Abonora,  Notte, Argì, Qui magge.
 
Tratto da: Salvatore Loleggio, L’idillio di Ciurnelli e le resistenze di Cremonte – Perugia dei poeti, “Micropolis: mensile umbro di politica, economia e cultura”, 14 settembre 2013
 
 
Città del vento – recensione di Giampiero Mirabassi
 
Vede meglio la verità delle cose chi non ne vede la forma. E il vento non ha forma. È la sua presenza inequivocabile, ma invisibile, che si carica di mistero e di fascino.
Il vento è simbolico e allegorico, immanente e trascendente. Nel dialogo notturno con Nicodemo, Gesù ne fa poeticamente l’immagine stessa dello Spirito : “Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene e dove va” (Giovanni 3,8)e non altrimenti un canto dei Sioux, dall’altra parte del mondo e del tempo, chiede al vento, voce del Grande Spirito: “Sono piccolo e debole, ho bisogno della tua forza per andare nel tramonto rosso ed oro”.
Un autore “minore”, Emilio Salgari, titola un suo scritto Disegnare il vento; di parole scritte nel vento parla Catullo nei Carmina e di sfidare il vento Virgilio nella III° Georgica. Della compagnia del vento canta Carmine Abate in La collina del vento e Quasimodo in Notte: Mi giunge il vento se in te mi spazio, / con esso il mare odore della terra / dove canta alla riva la mia gente  e Neruda: il vento della notte gira nel cielo e canta in Posso scrivere versi.
Senza dimenticare il manzoniano non tirava un alito di vento ad introdurre un quieto e silenzioso canto pieno di accorata nostalgia.
 
Tutta questa ventosa chiacchierata per introdurre le mie impressioni sul libro di Ombretta Ciurnelli La città del vento. In esso Ombretta disegna con il vento una città, la sua città, Perugia, senza mai nominarla, perché dare un nome è già fermare, è già delimitare, e il vento non si ferma mai e appunto non sai da dove viene e dove va.
Il vento di Ombretta è una entità, e più ancora un essere vivente, antropomorfo: canzona i sogni (Ntol colle), scuote gli aghi dei cedri, disegna in terra mulinelli impazziti, lascia andare una carezza per il seno della fanciulla di bronzo (Giardinette), risuona straniero in scarpe sformate (Buricche), spolvera il biancore della neve (Biancore) trascina i verdi nei profumi colorati del respiro della terra (Vèrde), spettina le pietre nell’inverno (Quattro pietre), corre e brucia i pensieri (Trene), graffia sul volto, ruba quasi il respiro, trascina nel vicolo il gran freddo respirato sui monti, si diverte sulle fonti a spolverare l’acqua, fa impazzire la polvere col suo fischio (Vento de nsù), muove le tele dei ragni (Portone), bussa alle porte (Discurrémme), ascolta una fanciulla che per piangere non respira (Fenestre), prende su di sé l’affanno del tempo (Rispiro), irrompe nel viale grande ( Foje), disorienta i pensieri ( Vèrse de vento), si fa seguire da stelle filanti e carte spiegazzate (Doppo la festa).
 
E la città? In tutto questo vivere e agitarsi del vento, stat.
Sta nton colle arimpiccata… fanfarona… ncol gran gì e nì de scese e de sajite, con le sue pietre ordinate, case scalcinate, finestre spalancate, portoni chiusi e i colori dei pinturicchi a disegnare i muri, con la varia umanità che è fatta di gente di tutti i generi e le età, anche di malvagi, storpi e matti che gridano al mondo (Puisia) in una carnalità fatta anche di odori, buoni e sgradevoli, purchessia.
E a guardarla, a viverla, ad amarla, sta Ombretta con la sua grande poesia, sofisticata, raffinata, portata dal vento di tutto il novecento letterario nelle sue diverse stagioni: basta leggere, gustare, gli “spartiti”, tanto risuonano nel lettore, di Nèbbia, Pagne stese, Malatia, Argì, Ubidienza, e la ermeticissima Sone .
E ancora Pescolle col suo postale carco de parole e in Gni ora co ’l su sole e la su gente e il tarassaco di Vetro lustrato,che …tal sol tonno / l su giallo bagaja, mentre borze presciolose / currivono le strade / mò cocce de cipolla…(Mercato), con i cipressi del lontano cimitero de freddo aringluppate (Cipresse).
Quasi spinta, infine, da una carezza di vento, si immagina, la figurina tenerissima (e certamente autobiografica) della bambina che ha catturato la lucciola e …curre / giù pe lo stradéllo / ncol pugno stretto / che barbaja forte (‘L paese).
 
La poesia di La città del vento non è un acquerello, ma una robusta tempera in chiaro scuro, con graffi di lumeggiature. È un’espressione di amore, a volte deluso, altre rabbioso, ma sempre intenso, per una città carica di storia celebrata e di storie dimenticate, di monumenti e di stamberghe fatiscenti, di vie reali e di vicoli bui. Il respiro lirico è sommesso e al tempo stesso altèro, in linea del resto con il temperamento dell’autrice, Ombretta, cui si addice più che per altri il detto “omen nomen”.
Ma viene da chiedersi come possa coniugarsi, senza smarrire il lettore, il tono alto e niente affatto popolare, colto, spesso concettualmente non facile, del contenuto poetico, con una forma che è la più aguzza, selvatica, rurale, arcaica e “prosaica” del dialetto perugino. Senza il confronto con il testo in lingua, che non è a pié pagina, ma precede il testo originale in folio a sé, (si presume non a caso), anche chi abbia confidenza con il nostro dialetto, trova non poche difficoltà a leggerlo e comprenderlo con  immediatezza.
Non si parla certo della correttezza metrica, dell’abile impasto di sonorità,  della destrezza nel verseggiare, ma proprio e soltanto della materia prima.
Il linguaggio terroso non lascia grumi, non fa “zuppi” è vero, ma è pur sempre terroso.
 
È questa la sfida che, unica nella cultura della sua città, Ombretta Ciurnelli lancia, non da ora e con coraggio, nelle sue poesie: il rispetto assoluto per la lingua madre del contado perugino, in cui è cresciuta la sua infanzia, pur nella sua rustica e arcaica povertà, a rivestire la colta modernità, ricchezza e straordinaria raffinatezza della sua poetica.
Non è il linguaggio, né la poetica volgareggiante, da sagra, cui gli autori dialettali nostrani hanno allevato un numeroso e ridanciano pubblico di bocca tonda. Né il linguaggio morbido, più toscaneggiante, arguto e affettuoso, che risuona nella poesia di Spinelli, ad esempio, e che si ascolta ancora, sempre più raro, nei borghi. Quello della Ciurnelli è un linguaggio che ha rispetto solo di se stesso e della sua storia e sembra fregarsene di piacere a chicchessia. E con ciò si pone come sorprendentemente aristocratico.
Ma forse è anche l’unica via non per rivitalizzare, che resurrezioni di tal genere non sono possibili, ma per dare finalmente, nel momento del suo definitivo tramonto, piena dignità letteraria ad un antico parlare già nobilitato dalle fatiche, dagli amori, dalle tragedie, dalle gioie, dalle preghiere, di tante generazioni, che, come il vento, se ne sono andate e nessuno sa dove.
 
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 Nella meravigliosa città del vento – Recensione di Antonio Carlo Ponti
 
Una  raccolta di poesie o un poema su Perugia? Propendo per la seconda ipotesi, perché prima di tutto è un canto d’amore, scritto con puntiglio filologico, ispirazione lirica, passione sociologica. È “La città del vento”, la quarta fatica letteraria di Ombretta Ciurnelli (Roma, Edizioni Cofine, 2013, pp. 110) con in bandella presentazione  affettuosa di Maria Paola Bartocci;  scrive che il libro racconta “una città che sfugge come vento dalle mani: è solo nel farti prendere  che la potrai afferrare”. Il vento, dunque, spadroneggia nell’acropoli etrusco-romana; qui è il suo regno, che ne fa città ventosa come la pascoliana Urbino,  segnata dalla tramontana a Porta Sole di dantesca memoria e, dopo secoli, di Walter Binni e dapprima di Aldo Capitini che ne sentiva la sferza dalla torre campanaria del Palazzo dei Priori. Cara anche a Gaio Fratini e a Sandro Penna, quindi ai maggiori poeti del nostro  Novecento, patroni laici di una splendidissima città storica cara al cuore dei poeti.  Il sottotitolo recita un “poesie in lingua perugina”, ed è giusto così, perché non si tratta di dialetto, borgarolo o del contado, si erge a dignita di lingua, con il suo secco, nobile, austero lessico, trascritto con adamantina sicurezza semantica, assolutamente moderno pur dentro il ventre della tradizione mai tradita. Dopo i tre precedenti volumetti (una poesia dai suoni aspri e terrosi, fra memoria e coscienza, fra ricerca e disincanto): gli acrostici di “Badarellasse ncle parole” (2007),  le vicende drammatiche delle donne sullo sfondo di una società arcaica in “L’arcontastorie” (2009), l’ariosità e il candore  in  “Si curron le formiche” (2010), e dopo l’intervallo teatrale de “Dai campi di granturco ai gelsomini” (2012), ora l’opera di Ombretta Ciurnelli si arricchisce di testi molto belli, calibrati, commossi e commoventi, e la città del cuore e della ragione si fa bella, diventa armoniosa in forma idealizzata, giacché sublima le brutture di una società spietata e corrotta. La poesia dell’ex insegnante nei Licei, colta e saggia, è trasfigurata  in diario lirico, dove la destrezza  tecnica incontra la felicità della versificazione, senza mai indulgere nel volgare, senza concedere un dito al gusto ridanciano o cedere  un soffio alla compostezza  e alla serietà della missione del poeta.
 
Apparsa su Corriere dell’Umbria di sabato 31 agosto 2013.
 
La città del vento – Recensione di Grazia Stella Elia
 
Non nuova a pubblicazioni, Ombretta Ciurnelli torna alla poesia in dialetto, dopo aver dato alle stampe il bel lavoro teatrale in lingua italiana, Dai campi di granturco ai gelsomini, uscito lo scorso anno con Effe Fabbri Editore di Perugia.
Questa volta è proprio Perugia il tema dominante e il titolo è La città del vento, con il sottotitolo Poesie in lingua perugina, che trovo giustissimo perché, come si sa, anche i dialetti sono lingue. Un libro, questo, uscito con le Edizioni Cofine di Roma, che si presenta con un aspetto davvero elegante nella sua signorile sobrietà.
La copertina è impreziosita da un particolare di un disegno di Paul Klee, Chosen site, del 1927, mentre il particolare di un affresco di Benedetto Bonfigli del XV secolo rende preziosa la prima pagina. Ma veniamo ai testi poetici, che sono 48, suddivisi in tre sezioni: Sul colle, Aria di vicolo e Presenze; ma, prima di tutto, contrassegnati da una frase di Italo Calvino “Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure…”, troviamo i versi della lirica intitolata Puisïa (Poesia) che, in una musicale pregnanza, delineano la città sia architettonicamente che socialmente. Na città già da lia è puisia (Una città già da sé è poesia), conclude felicemente l’ultimo verso.
Poetica davvero la composizione che segue, Sul colle,da cui emerge fanfarona (vanitosa)una città ricca de scese  e de sajite (di discese e di salite), scivolando lenta sulla schiena del colle, guaso a chiappallo ntol bono de l’amore (quasi a possederlo nel colmo dell’amore), mentre un girotondo di montagne sta ad ammirarla.
Scale, scalette, tetti, torri, comignoli, giardini e foglie in volo nel vento: un vento che fa verse (scherzi) ntlo stradone che curre  / giù pel piano (nel viale che corre / verso la pianura), dove inebria il profumo dei tigli. La città del vento, abonora  (al mattino presto)diventa tutta mia dice la poetessa, quan sol che no scopino / camina nsù e ngiù p’arcutinalla (quando solo uno spazzino / cammina su e giù per farla bella) e bianca se sveja / la Fontana Granne (bianca si sveglia / la Fontana Grande).
Passo dopo passo la Ciurnelli percorre la sua città, la guarda con occhi attenti e innamorati e la descrive come sa fare la penna di un poeta. Così il verde di alberi, uno diverso dall’altro, a meraviglia si fonde in un solo gran verde. Quanto vede nelle quattro pietre poggiate su pe ‘n toppo / ‘n bilimbenza… (appoggiate su un colle / in bilico…)! Quanto ascolta e quanto immagina! Nulla sfugge ai suoi occhi, neppure le pescolle granne (pozzanghere grandi) che dopo il temporale arispecchion birate / centene de tette fanfarone (rispecchiano capovolte / cimase di tetti vanitosi).
La sua città, vista come una donna vanitosa, è anche donna colpita dalle malatie / che ‘i curron  pe le vene… (malattie / che le corrono per le vene…).
Entriamo nella seconda sezione Aria di vicolo in compagnia del Vento del nord portatore di freddo nel vicolo, un freddo che l’aria lustra / e zzeppe via le nugole (pulisce l’aria / e scaccia via le nuvole). Soltanto in aprile discurre ‘l turchino / anco ncol vigolo (discorre l’azzurro / anche col vicolo), mentre scolta ‘n pisciacane / storie ntruschiate de guerre nguastite / e ta ‘l sol tonno / ‘l su giallo ‘i bagaja (ascolta un tarassaco / storie intricate / di guerre impietose / e al sole tondo / grida il suo giallo). 
Si ricorda l’antico mercato con le meraviglie d’orto e le grida a mo’ di nenia degli ortolani e nella notte si tessono le storie: dei gatti e delle persone. Se c’è la nebbia, è come restare  capato dal monno (fuori dal mondo), mentre su un gradino l’arsumijo / de ‘n gattino… aligia  / ‘l su pel roscio / sciurcinato (il fantasma / di un piccolo gatto… accarezza / il suo pelo rosso / arruffato) mentre si cerca d’artovà l’aria / de casa (di ritrovare / l’aria di casa). In estate c’è il borbottio ostinato delle cicale, un serpente striscia nell’orto bruciato, con la speranza che la la vita trista  (la vita perfida) fugga fuori dalle mura antiche protettrici della città.
Siamo intanto alla terza sezione, Presenze, in cui i mure sdrucuinate (le mura consumate) inducono a immaginare presenze e ad andare a ritroso nei vicoli della vita. Se si ascolta il vento, può darsi che ritorni di tempe ‘l tempo (dei tempi il tempo) e con esso la storia fatigata  (la storia faticata) di una terra, na storia d’arimbuldche e de sprofonne (una storia di distruzioni e di crolli). Immaginando presenze è possibile parlare di cose e di persone e persino del bussà del vento ta le porte (del bussare del vento sulle porte).
Da fenestrone / murate nti palazze (grandi finestre / murate sui palazzi) arrivano storie de sequle (storie di secoli) e tragedie d’amore, ma c’è anche odore d’incenso proveniente dalla chiesa, dove le piccole suore cantavano cante ligger d’aria e de luce (canti leggeri di aria e di luce). Non lontano un vecchio ospedale in demolizione, dove è solo ‘n rimor cinino / mezz’a i calcinacce / quil pigolà / de le sore cappellone / na volta a curre / sempre nnamidate / le scale i curridoje le corsie (un piccolo rumore / tra i detriti / quel pigolare / delle suore dai grandi cappelli / un tempo a correre sempre inamidate / le scale i corridoi le corsie).
Ecco le bancarelle del mercato delle vecchie cose, fra cui assurge al rango di ‘regina’ una zuppiera che, seppure tecciata (sbeccata), ricorda una tavla lunga lunga (tavola lunga lunga), da cui un tempo spajava ‘nn aria / ansiem ta l’alegria / l’offror del brodo / fatto ncla galina (spandeva nell’aria / insieme all’allegria / il profumo del brodo / fatto con la gallina). Vi è poi la nota mesta: il cimitero dove nel silenzio ciuflon i marme (bisbigliano i marmi) e  fiore e lumme / ènno pe sta ‘nsieme  (fiori e luci / sono per stare insieme) e da dove si porta via con sé, per tutto il giorno, quil rustco de l’offror / de crisanteme (quel ruvido del profumo / di crisantemi).
Si fa strada, intanto, il ricordo della fanciullezza, nton qui magge / ch’ansieme ciardunamme (in quei maggi / quando ci trovavamo insieme) e ‘l trenino curriva drent’al vento (il trenino correva dentro il vento). Intensa, coinvolgente, con l’offror de gelsumino (il profumo di gelsomino), respira l’aria del paese con i giochi di un tempo, sull’onda di una vecchia filastrocca:  Luccela luccela / vien da me / te darò ‘l pane de rre (Lucciola lucciola / vieni da me / ti darò il pane del re). È poesia nella poesia questa chiusa di un libro dalla freschezza bambina, anche se non mancano qua e là note di amara riflessione.
Ombretta Ciurnelli, avendo compagno il vento, ha attraversato in lungo e in largo, con l’anima e la voce della poesia, la sua città di adozione, con uno sguardo di amore rivolto al paese di origine.
La lingua dialettale, scelta come unica sua lingua poetica, le sboccia calda e naturale dal cuore, per mutarsi in bella, elegante, limpida lingua italiana nella traduzione.
Opera matura, densa, pregnante questa silloge, che segna un momento importante, come pietra miliare, nel cammino di scavo che l’Autrice va compiendo nella lingua perugina. Un libro inteso a far conoscere, con pennellate di parole, una città umbra con la sua storia antica e la sua quotidianità: “quella città di vie in cui il vento urla, pulsa e scorre come sangue, a tratti forte a tratti leggero, come il respiro”, come scrive Maria Paola Bartocci nel primo risvolto di copertina.