Nella cesta dei ricordi

Recensione di Nevio Spadoni a “La cruedda” di Vincenzo Luciani
Vincenzo Luciani, poeta nativo di Ischitella nel Gargano, emigrato dapprima in Umbria, poi a Torino ed infine a Roma, è conosciuto nel panorama nazionale e non solo, come poeta in lingua, ma soprattutto direi, come poeta nel dialetto del suo luogo. Ha rivestito anche cariche politiche, ma interessa soprattutto il fatto che il nostro ci ha regalato versi di altissimo pregio stilistico.
 
Nella storia di un poeta è molto importante conoscere l’imprinting, le radici che hanno favorito il nascere e  lo sviluppo della sua vocazione poetica; sì, perché di vocazione si tratta, e la parola latina vocare traduce la chiamata da parte di qualcuno, ed è chiaro che  anche in questo caso è stata la poesia a chiamare Vincenzo, con le parole succhiate dai genitori e dai nonni nel caldo e ruvido dialetto del Gargano.
 
Chi conosce un poco Luciani e legge i suoi scritti, si rende subito conto che nel suo caso poesia e scrittura – come suona un verso di Franco Scataglini – sono compagni, nel senso che i tratti signorili e delicati della sua personalità trovano un correlativo nei suoi versi, leggeri nel loro passo, amabili, con quella tenue e discreta nostalgia tipica di chi ha dovuto lasciare i suoi luoghi per ragioni  di forza maggiore. E allora qui possiamo dire con Maria Zambrano che quando la fantasia trasfigura le cose non appena esse scompaiono, è necessità scrivere per difendere la solitudine in cui ci si trova e salvando le parole dalla loro esistenza momentanea e transitoria,  e condurle verso ciò che è durevole.
 
Questo ha fatto Luciani particolarmente con A cruedda, raccolta di liriche, Cofine editore, 2012, divisa in tre parti: A Grotte u Tasse, I portahalle, A Ville, con disegni di Licia Novaga. La cruedda  è un cesto caratteristico di Ischitella, che si presta a usi diversi: culla per il neonato, cesto per il pane, per il bucato, per i doni nei matrimoni e come omaggio ai congiunti di un defunto; accompagna così l’individuo dalla nascita alla sua dipartita, ma soprattutto assurge a simbolo di un solido ancoraggio dell’ischitellano – e qui del poeta in particolare – alle proprie radici, quale bisogno di fedeltà  e di appartenenza a quella sua terra contadina che ha conosciuto povertà, fatica e sudore, nella durezza del lavoro. Chi partiva e lasciava la propria terra portava sempre  con sé la cesta per il viaggio onde far fronte  ai bisogni concreti del vivere quotidiano.  E il poeta, del resto, è come un viandante che con bastone e bisaccia percorre i sentieri impervi della vita, e, animato da una naturale, profetica saggezza, addita agli altri il cammino. In fondo, è un uomo di grande apertura, non chiuso in una improduttiva filautia, perché fare poesia è prendersi cura degli altri, nell’ascolto attento della realtà.
 
E Luciani ne ha incorporato di mondo, con  quei luoghi speciali che ora, come il pittore espressionista, pennella quella “terra rubata alle pietre … a poco a poco ammassata, ma anche poi abbandonata”, là dove ora …"anche se dai una voce e gridi non ti risponde nemmeno un cristiano”. La consapevolezza che tutto è mutato, le nuove generazioni non hanno più quel pudore e quella sobrietà  dei vecchi, così diversi dai  nonni odierni, intristisce il poeta chiuso ormai nel suo groviglio di opposti sentimenti, con la voglia di piangere e gridare, magari senza un perché. I ricordi si sovrappongono, e le parole del padre, come si legge nella seconda parte  in "Analfabbete", “non erano parole / erano pietre che ti colpivano in fronte”; saggezza di lunga e provata esperienza, luce al figlio, a non ripercorrere la sua stessa strada di fatica e di miseria.
 
Con strofe di diversa lunghezza e diverso metro, Luciani rivede il mondo dei suoi cari e, quel mondo contadino abituato a povertà e a stenti, pure radicato su valori solidi trasmessi di generazione in generazione; ma  senza retorica, senza intimismi, con misurata empatia, consapevole che l’oggi è imbastito di ben altra realtà, quell’oggi dai rapporti umani ormai inesistenti,  mercificazione delle persone e idolatria di vuoti feticci  Quando parla dei giovani di oggi, in "Uerra perza" (Guerra persa), li vede distruggersi in un’altra guerra, una guerra persa; e allora, come non ricordare i giovani infelici del suo tempo che P. P. Pasolini nelle Lettere Luterane dipinge come esseri afasici, abbruttiti per la mancanza di senso, succubi di uno sfrenato consumismo che azzera tensioni e ideali? Ancora, nella poesia di Luciani,  "È inutile fuggire", aleggia sullo sfondo la paura della morte; “quella ti viene dietro / hai voglia di scappare / a tutta birra vedi che ti insegue / non ti preoccupare quella ti afferra / è inutile che scappi”; a che vale allora accumulare, vivere in funzione del profitto, divinizzare se stessi, ergendosi a fondamento della vita stessa?
 
Quello di Vincenzo Luciani è un canto melodico, dolente, sul filo dei ricordi e nella piena consapevolezza della preziosità della vita, che, sull’esempio dei nostri vecchi, bisogna saper conservare e condividere; è un inno continuo alla bellezza di quella terra che l’ha accolto adagiandolo nella cruedda, e che ora ci restituisce, come in un mosaico intarsiato di colori forti, emozioni, sapori e suoni. Ischitella è  infatti un luogo magico, una terra di agrumi, oliveti e sorgenti, che dall’alto sorride al mare Adriatico, al lago di Varano e alle isole Tremiti, terra ricca di storia e di tradizioni.
 
L’augurio pertanto è che le nuove generazioni  sappiano conservare tale bellezza di luoghi e di persone, e valorizzare questa poesia intima e sincera, dallo stile limpido, con quelle parole di una volta, che qualificherei “parole fatte in casa”, parole che odorano di pane fresco, in questo nostro mondo – come si esprimeva Pasolini nella poesia Al Principe, che ai poveri toglie il pane, ai poeti la pace.
 
                                                                                                                                 Nevio Spadoni
 
pubblicato il 31 agosto 2015