‘Na viola ner penziero’ di Rosangela Zoppi

Sarà presentato il 25 maggio a Roma al Teatro Belli

Il libro di Rosangela Zoppi ’Na viola ner penziero  (poesie in dialetto romanesco, pp. 87, Zone Editrice, Roma, 2009) è stato presentato il 25 maggio 2009 a Roma, al Teatro Belli in piazza Sant’Apollonia 11a.

Hanno presentato

il libro Cosma Siani ed Eugenio Ragni che ne ha curato la prefazione (che pubblichiamo qui di seguito).

Dalla prefazione di Eugenio Ragni a ’Na viola ner pernziero: “Capita di rado d’incontrare oggi una silloge di liriche che non lasci a libro chiuso l’impressione di frammentarietà, quasi che le pagine fossero pareti sulle quali un collezionista ha esposto tele anche preziose ma scarsamente o per nulla consonanti a un’idea specifica, a un progetto di massima, a un tema. La cosa si fa ancora più rara nella poesia in dialetto, sia perché è per tradizione legata a tematiche di convenzione, sia perché l’autore, specie se è alle prime prove, vuole trasmettere al lettore una sorta di catalogo di argomenti per dare piena dimostrazione della propria abilità e dell’eclettismo di cui è dotato.

Non accade certamente con ’Na viola ner penziero, regesto di piccole grandi realtà quotidiane che Rosangela Zoppi sa scoprire, leggere, ritagliare e poi fissare sulla pagina, calate nella semplicità, nella nitidezza e nell’espressività di un dialetto modernissimo nell’articolazione prosodica ma antico nelle forme, nel lessico, nei modi di dire: un dialetto che riporta suoni e coloriture di una Roma schiettamente “romana” e quasi del tutto scomparsa, senza per questo stimolare l’abusato sentimento di perdita che di solito è padre delle facili geremiadi o dei piagnistei per un tempo bbello che nun c’è ppiù, ammesso che ci sia mai stato.

Se un rimpianto traspare qualche volta in queste liriche, riguarda casomai il desiderio di una dimensione diversa, “antica” e, più che perduta, smarrita, e da ritrovare: un rifugio dove godere di una stasi di raccoglimento che possa favorire il recupero di una dimensione personale e intima, di un proprio cantuccio interiore in cui riscoprire sensazioni e sentimenti che le frenesie dell’attuale modo di vivere violentano continuamente, umiliano, costringendo a non pensare, a dimenticare quasi d’essere persona di testa e di cuore: al punto che, prevaricati dal frastuono della globalità, dall’incafonimento deculturato che ormai ha colonizzato ogni livello ambientale, sociale, professionale, non riusciamo più ad ascoltare non soltanto gli altri, ma neppure noi stessi, plagiati come siamo da questo mondo de cianerìa e de stracci, nel quale è ormai impossibile trovare un solo minuto per guardarsi intorno e dentro.

Non si tratta però di autoescludersi in un eden più o meno compensativo, ma di riattivare una funzione trascurata e parzialmente sconfitta per recuperare il colloquio con se stessi e con gli altri, e per riscoprire soprattutto un po’ di poesia: perché la poesia è comunicazione generosa, un darsi in slanci di autentico sentire comune; poesia, dunque, non come sogno consolatorio, come evasione egoistica, ma come tramite per conoscere e conoscersi, per riflettere sulla realtà che abbiamo intorno, vestendola se occorre, e perché no, di fantasia.

’Na viola ner penziero è infatti una collezione di flashes di vita semplice, di amore matto e smisurato / pe le cose da gnente, di ricordi personali, di pensieri, di momenti di riflessione, il cui elemento connettivo è la presenza costante dell’io: un io che però non indulge mai al narcisismo, all’autocompiacimento della ribalta. Ne deriva la felice esclusione di qualunque moralismo, d’ogni presuntuosa sentenziosità, in quanto nostalgie, resistenze, rimpianti restano individuali, non salgono l’erta presuntuosa delle “massime di vita”: la verità e la costante presa diretta con la vita reale, la naturalezza con cui viene evocato il quotidiano di fatti, di esperienze e sentimenti comuni promuovono per questo la convinta partecipazione del lettore, che quasi sempre può riscontrare nel proprio bagaglio di vita vissuta quanto nella pagina è registrato sub specie poetica.

È possibile rintracciare all’interno del libro una serie di tematiche, che però, come ho già puntualizzato, non ne spezzano la sostanziale unità, generando invece una ritmica di argomenti che costituisce uno dei pregi della silloge. L’ampio ventaglio di temi potrebbe incoraggiare una lettura a tagli monografici, che certo violenterebbe la compattezza del libro e la volontà dell’autrice: ma sarà, questa, una felice forzatura, in quanto ogni singolo accorpamento potrà far meglio risaltare le qualità delle apprezzabili “variazioni su tema”, che potrebbero altrimenti sfuggire. È un altro modo di leggere ‘Na viola ner penziero, poco canonico forse, ma autonomo e perciò stesso stimolante.

Fra i numerosi temi, direi che a libro chiuso ne restino impressi in modo particolare almeno due: la confessione di una solitudine a tratti dolorosa, ma accettata anche se obtorto collo, come puntualizzato, per esempio, in Lettera a Lidia, in Imprèsteme, in Er presente; e soprattutto l’intensa percezione “fisica” dello scorrere del tempo, fissata in inquietanti immagini concrete: Er monno intorno a me se sta a ristrigne / come ner collo de l’imbottatore (Er pattostucco), Pe te mommò s’infiora  / quello che poi t’illude, / pe me invece è già l’ora  / che tutto s’arichiude (Che te lo dico a fà); ormai cammino / co l’orecchia a l’ingiù come li cani / e coniugo li verbi solamente / ar passato e ar presente (L’indovinarello); Sortimo da sta vita, / chi in pompa e chi in sordina, / p’addiventà … che cosa? / Nuvola rosa, stella matutina […] / O aricomincia invece er girotonno d’un’antra vita,/ finché nun casca er monno? (Domanna).

In perfetta sintonia con la categoria calviniana della “leggerezza”, le liriche di questa raccolta sono improntate a una «sottrazione di peso» che caratterizza anche quelle in cui vengono affrontate tematiche impegnative, quali appunto il trascorrere inesorabile del tempo o la scomparsa di persone care o l’esercizio del sempre più gravoso “mestiere di vivere”. Rosangela possiede infatti la dote di alleggerire questi temi ricorrendo a quella «speciale connessione fra malinconia e umorismo» che Calvino riconosceva in Cervantes e Shakespeare. In ‘Na viola ner penziero l’impressione di leggerezza è dovuta infatti anche al sapiente innesto di tonalità sdrammatizzanti, che in qualche misura esorcizzano le ombre della tristezza senza per questo ignorarle o sottostimarle: una leggerezza, dunque, che ovviamente non ha niente a che fare con il disimpegno e men che mai con la superficialità.

La vita è quella che è, e l’inventario di momenti che queste liriche ne offrono disegna quell’alternanza di sì e no che è propria dell’esistenza di “ognuno”, propria di sta penitenza dorce che ce tocca, di cui affetti familiari, sofferenze intime e fisiche, amori, delusioni e paure, giorni felici o negativi sono le ordinarie componenti. Pianti o recriminazioni o bestemmie non servono: si er dolore ce s’affiara addosso, / un po’ de mattità / ce pò fa bene pe tenello a bada. Anche la morte, presenza quotidiana che il più delle volte assume concretezza corporea, è vissuta senza drammi o paure, filtrata e schermata com’è dalla poeticità di una metafora o d’una comparazione; o anche, all’estremo, da un’intensa e felicissima sofisticazione surreale, come in L’imbianchino.

Rosangela non edulcora né drammatizza: racconta se stessa e il proprio rapporto col mondo, proponendo un pacato, obbiettivo bilancio che chiunque, a un certo momento della vita, sente il bisogno di redigere. È un bilancio senza cifre, che perciò non produce un totale numerico, ma offre in cambio un determinato punto di arrivo che potrebbe essere, forse, la base di partenza per il prosieguo del viaggio, per un resto d’itinerario da compiere magari con occhi nuovi.

Regola di retorica rigorosamente applicata in questa raccolta è la brevitas: che non consiste banalmente nel contenutissimo numero di versi delle singole liriche o nel ridotto spessore del volume, ma è principio di poetica espressamente dichiarato dall’autrice: pure le parole, com’er pane, / a spregalle è peccato (Lezzione). Ed è, questa, una scelta che, anziché impoverire, impreziosisce il dettato, aprendo valenze di originale suggestione.

Con un procedimento che ricorda Mario dell’Arco, il nucleo di ciascun componimento consiste di solito in un’immagine concreta, proiezione figurale di un pensiero o di una sensazione. Dando corporeità all’astratto, le metafore disegnano immediatamente un concetto, lo visualizzano e, quando sono felici e inedite, suscitano un’immagine che risveglia echi, sensazioni, suggestioni visive di grande presa: come in Cura (Aria de garza, / che s’arza delicata e providente / pe infasciamme la mente / malata de penzieri), in Amore (Ner petto l’ape ch’ha smicciato er fiore / e su la lingua er mèle / de le parole che nun te so dì); in La neve, che co un assolo de bianco / la notte ve l’incanta, in Er cannejere (er penziero […] fila, / come vela sur lago de la notte, / cantanno er miserere a un antro giorno / che è annato a fasse fotte); in Compleanno (anni volati tutt’assieme, / come piccioni a un córpo de fucile); o ancora e più nell’intensa allegoria sottesa a Er girasole (Fiore che ciài la sorte / de córe appresso ar sole / fino a la morte / e nun fai mai un passo).

Stessa impressione di leggerezza comunica il registro dialettale: che per sua natura apporterebbe piuttosto “pesantezza”, e che invece, improntato com’è a una levigata semplicità che ne mantiene intatte forza espressiva e er gusto che ciavéva, concorre anch’esso al recupero di una dimensione mnemonica ed emotiva che può diventare forza vitale, spinta a strigne un pattostucco co la morte, conforto per resistere all’insostenibile pesantezza del vivere. Ed è recupero, anche, di modi di dire coloriti e ormai desueti (pijà l’erba fumaria, piagne a vite mozza, pe conciabbocca, prima peparola, intignà, zinalino, mollaccia, ciancicà, allaccato, gaimoni: puntualmente spiegati nel glossario a fine volume), cui si aggiunge quello di un repertorio ludico infantile che, schiacciato dalla tecnologia, nessun regazzetto frequenta più: Tu che gioco vòi fa? Nizza, campana, / cerchietti, mazzarocca, cucuzzaro? / Vòi che sparamo un po’ de cartoccetti / soffianno dentr’a la ciarabottana?; la filastrocca / de la piazzetta bella / ‘ndo sta la pecorella / che fa bèe bèe, o la penitenza di andare a Gerusalemme a mani giunte senza ride e piagne.

La semplificazione del dettato dialettale non ha però il carattere di una concessione artefatta a meri fini editoriali, ma obbedisce a un oculato aggiornamento di un’eredità linguistica che merita di essere preservata nelle sue componenti vitali, e non imbalsamata in forme antistoricamente conservative, da lingua morta. Il dialetto deve vivere, circolare, nutrirsi in osmosi con i tempi, assorbirne lo scorrere e il mutare senza snaturarsi: come ha fatto per secoli.

E come farà ancora, se da quarche radica guasta / e poca tèra morta di una poesia dialettale in crisi di originalità e, spesso, d’identità, potranno rifiorire altre pagine come queste.

Eugenio Ragni

 

’NA VIOLA NER PENZIERO

Quarche radica guasta
e poca tèra morta
dentr’ar vaso spaccato,
che lo tiè abbraccicato un fir de fero.
Ma c’è rimasta viva
’na viola ner penziero.

STRADE ROMANE

Strade romane,
che ciànno sempre un sercio che je balla,
com’er dente da latte a un regazzino.
Strade inzolente sadiche villane,
che quanno ce cammino,
sott’ar sole o a le stelle,
si per caso me storco ’na cavija,
le sento ride, ride a crepapelle.

CHE TE LO DICO A FÀ

Che te lo dico a fà de ste giornate
come sassate secche su la fronte,
de sta pena ammattita
d’un cane a la catena,
der tempo che me spezza com’er pane?
Che te ne parlo a fà io de la vita,
si più la vojo strigne e più la sento
sciupasse fra le dita?
Pe te mommó s’infiora
quello che poi t’illude,
pe me invece è già l’ora
che tutto s’arichiude.

L’IMBIANCHINO

Sopr’a un’imparcatura,
fra er cemento e la carce,
un imbianchino canta addosso ar vento.
Ma la Commare,
che ha già sentito quarche stonatura,
je porta la battuta der sorfeggio,
arzanno inzù la farce
e sbattennola a tempo
su le sbare de fero der ponteggio.