[MARZO 2025] Mazzapenga e la farfalla. Storia di Sambuci e dell’occupazione tedesca a Roma e in Val d’Aniene, di Alga Fratini, Roma, Edizioni Cofine, 2025. ISBN 978-12-81642-06-5, pp. 128, euro 15,00
IL LIBRO
A 80 anni dalla morte, è possibile che un’anima in pena torni a bussare alle nostre porte, per essere riconosciuta e accolta? È possibile che una donna analfabeta e misera come Mazzapenga, all’anagrafe Francesca Colarossi, nata a Sambuci (piccolo paese in provincia di Roma) nel 1888 e uccisa dai nazisti il 6 giugno 1944, sia quella nobile anima, tornata per lasciarci il messaggio di una nuova visione del mondo in cui sia l’amore a smuovere gli individui, anziché la guerra?
Nel libro la risposta. Insieme alla sincronicità delle circostanze incredibili che circondano le vicende di questa donna e di quelle del suo paese, Sambuci, utili a gettare nuova luce sugli eccidi perpetrati dalle SS in ritirata dalla Valle dell’Aniene nel giugno 1944 e, soprattutto, su alcune vicende sambuciane mai chiarite.
Il volume è dedicato a Sambuci e alla sua gente, ed è una sorta di “testamento letterario e spirituale” di Mazzapenga, o meglio, dell’Anima.
L’AUTRICE
Alga Fratini, nata a Roma nel 1955 e residente in Sambuci, ha conseguito una Laurea in Storia del- l’Arte e una seconda Laurea in Psicologia, con approfondimento in strategie d’apprendimento e test diagnostici. Vincitrice di concorso a cattedra, ha insegnato per trent’anni tra Roma e provincia. Ha pubblicato testi per l’ex Provveditorato di Roma e per l’ANP di Roma, saggi brevi e articoli per riviste specialistiche di didattica, psicologia, attualità, racconti per Historica Edizioni e per Ensemble Edizioni. È ceramista, arredatrice d’interni per diletto e studiosa di scienze occulte.
NEL LIBRO
Da “A chi si’ fiju? De che razza si’?”, prima parte del libro:
«(…) Si collocarono a San Lorenzo, dove Franco, l’ultimo figlio, fu concepito, in quel palazzo visibile al n. 64 in via dei Sabelli rimasto mutilato, a memoria dei bombardamenti del 19 luglio 1943.
Armenio non fece in tempo a vederli, era morto a gennaio l’anno prima per le conseguenze di un enfisema polmonare contratto in Africa dove aveva combattuto, era rimasto il suo fucile da caccia attaccato all’unica parete dritta dopo la devastazione, mio padre lo raccontava commosso:
(…)
Sentimmo arrivare gli aerei, ma a quelli c’eravamo abituati, però poi arrivò il sibilo delle bombe e le esplosioni. Me lo sentii nella pelle che era successo qualcosa ai miei, e il fumo veniva dallo Scalo, dalla Basilica di San Lorenzo. Corsi corsi corsi corsi col fiato in gola e più m’avvicinavo più mi scoppiava il petto. In tutta quella nebbia di calcinacci e strazio casa nostra non c’era più, era crollato tutto, mamma e Gina stavano là sotto.
Mi misi a ’n angoletto a piagne’, non mi vergogno di dirlo, un uomo di 17 anni che piangeva come un pupo che non sa più che fare, dove andare, a chi parare.
Solo, ero rimasto solo, chiamavo mamma e non mi rispondeva.
Non lo so quanto sono stato lì rannicchiato, poi passò un signore ben vestito, un borghese, mi chiese “chi sei?, dov’è casa tua?” io dissi indicandola “ho perso tutto” e lui mi mise in mano mille lire.
MILLE LIRE, capite? A quell’epoca era lo stipendio di un benestante, di un impiegato.
Non ho mai capito chi fosse, da dov’era sbucato, forse un miracolo. Fu un miracolo, forse mio padre che dal Cielo mi aiutava.
(…) Ma quel giorno, a San Lorenzo, c’era poco da ridere e tanto da piangere e io scavai scavai fino ad avere le mani insanguinate, ma il dolore non lo sentivo, volevo solo sentire un fiato, un lamento, la voce di mia madre o di mia sorella venire da sotto le macerie così avrei avuto la certezza che erano vive.
(…) Con quelle mille lire potemmo far fronte al disastro: mangiare, comprare scarpe nuove, un po’ d’olio…»
Dalla seconda parte “Mazzapenga e la farfalla”:
«(…) Intanto Mazzapenga (soprannome di Francesca Colarossi, N.d.R.) tornava verso casa e il sudore le colava dalla fronte e pure gli occhi avevano caldo e non si capiva più se erano gocce di lacrime o sudore a cascarle addosso. Si calò il fazzoletto che s’era messa in capo verso il naso per trattenerle e affrettò il passo. Quando giunse in paese, vide un gran movimento di cose. I tedeschi avevano trafficato tutto il giorno, ma pochi avevano visto, perché con certi tubi i soldati spruzzavano acqua dalle finestre del Castello sui passanti per non farli avvicinare e quelli più informati stavano vigili, pronti a carpire il più piccolo segnale di rappresaglia.
Si avvertiva che qualcosa di grosso stava succedendo, infatti la linea Gustav era saltata e gli americani erano vicinissimi. Intorno al Castello si parlava quasi sottovoce e pure ai piccoli era stato detto di non dare fastidio ai soldati; chi aveva beni da perdere s’abbarbicava alla casa, con la porta serrata, mentre altri scappavano o erano già scappati per nascondere le bestie e non farsele razziare, per scampare il reclutamento, per il terrore di perdersi e morire.
Pure i tedeschi scappavano, tutti scappavano da qualcosa, per esempio dal sentimento che si sarebbe potuto fare di più e meglio, se soltanto ci fosse stata una maggiore coscienza, la lungimiranza per sentire, se non capire, dove avrebbe condotto credere alla propaganda del regime.
(…)
Una falena scura entrò all’improvviso in casa e Mazzapenga non l’avrebbe forse neanche notata sul muro affumicato, se non fosse stato per quella specie di teschio che portava sul capo.
La guardò e rabbrividì, perché quella coccia de morto non era un buon segno, e con uno straccio in mano e un’ansia crescente nello stomaco, si mise a scacciarla: “Sciò sciò ’ndimoniata, resci da casoma! Pozza pija n’ curbu, mori tune, mori!”.
La falena emise una specie di cigolìo, allargò le ali in arancione, svolazzò qua e là e infine attraversò la porta aperta, volò verso la piazza della Chiesa e si andò a posare sullo stipite del portone di San Pietro, aprendo e chiudendo lentamente le sue grosse ali facendo comparire e scomparire il teschio, nella luce crepuscolare, in un macabro gioco di “muori o non muori”.
Francesca, ormai esausta, crollò sul saccone e calò in un sonno profondo, senza nemmeno controllare se l’acqua nel catino fosse limpida.
(…)
Certi giorni cominciano come tutti gli altri e avanzano, veloci avanzano, come se le ore fossero scandite dal ritmo del battito del cuore in passi lievi o accelerati, prendendosi per mano e tenendo ghirlande di boccioli appena schiusi, oppure spargendo a terra petali appassiti di fiori spampanati e calpestati nella danza.
Francesca si svegliò presto quel martedì, prima di tutti, e subito si attivò: controllò quel po’ di pane rimasto valutando se sarebbe stato sufficiente almeno per un altro giorno e iniziò a pensare alle riserve che aveva per ammannire un po’ di vettovaglie.
Arrivò voce che gli ultimi tedeschi si preparavano a lasciare Sambuci e regalavano ai paesani suppellettili divenute per loro superflue e Francesca, assieme a tanta altra gente, si spicciò a correre verso la Caserma, giù ai Frati, per recuperare qualcosa di utile, senza capire che i tedeschi gridavano nella loro lingua, pur sapendo di non essere compresi, di non toccare, di non avvicinarsi. Forse fu solo una trappola, appositamente escogitata da qualche maledetto fra quei soldati, un ultimo atto di sfregio e di disprezzo contro una popolazione inerme, colpevole solo di bisogno.
Sotto il lato delle scale stavano, piegate e ordinate, le coperte dei militari, di lana buona, resistenti, calde. Fu un tutt’uno per Francesca vederle e desiderarne una tutta per sé; non ci pensò un attimo a correre per arraffarne una, ma …
(…)
Nell’Epilogo, oltre a svelare la fine del romanzo, sono riportati i nomi delle vittime dei tedeschi durante la loro ritirata nella Valle dell’Aniene nel 1944 e vengono definiti altri eventi accaduti a Sambuci che trovano riscontro nei documenti studiati e nelle testimonianze raccolte.
Nelle Conclusioni il cerchio, iniziato con la riscoperta della compaesana Francesca Colarossi, obliata quasi totalmente nella memoria collettiva, si chiude con il racconto del processo creativo del testo e della sua stesura, sostenuta da documenti e dalle dichiarazioni dei testimoni.