Maurizio Rossi. L’arte di invecchiare in “C’è ’n’aria scapijata” 

Nota di lettura di Maria Gabriella Canfarelli

 

In dialetto romanesco, lingua adottiva di Maurizio Rossi, C’è ’n’aria scapijata (Cofine, Roma, 2025) si presenta come un diario di bordo ricco di annotazioni e riflessioni liriche sulla terza età, cammino quotidiano di quella parte di vita sulla quale soffermarsi a coltivare e sviluppare riflessioni e constatazioni. Dal confronto  tra un prima e un dopo nasce una scrittura poetica che ha il dono d’una aerea leggerezza, di ragionevole disincanto nell’apprendere giorno dopo giorno il difficile mestiere di invecchiare, frattanto che si assottiglia anche il tempo del riposo notturno: Dormi poco, pe’ coje quer momento/ e nu’ sbajà lo zompo ner mistero,/ aprì le braccia ar vento, che t’aregge/ pe’ quanto sei leggero. Le cinque sezioni sono caratterizzate da un andamento colloquiale e talora scanzonato tra l’uomo e la sua propria, e anche altrui, esistenza. Con sapiente equilibrio tra disincanto e ironia, il poeta scrive dei giorni che passano, anni andati, cercati e ritrovati nell’intimità della poesia. 

Ed ecco la primavera e Cupido che spara co’ la cerbottana/ la freccia ch’ar còre dà er tormento, cui segue l’estate con le cicale che ràspano de panza/ pe’ la callaccia mezze ’mbriacate. E dell’autunno le foglie cadute, sotto le scarpe pàreno masnada/ de meggere, cor ghigno in de lo scialle/ che la mano inzecchita tiene a bada. Poi il vento invernale di tramontana, tra li cartoni introna, (…) su ’na panca./ Er semafero ammicca e me cojona,/ nun m’aricordo più chi m’ha costretto/ a stà pe’ strada senza manco un tetto.  In forma di sonetto o in rima o in versi liberi, la scrittura poetica argomenta del mutamento ciclico della stagione umana, cammino terreno durante il quale accadono perdite, si enumerano le assenze, si avverte la lontananza dai beni affettivi ( E mo ’sta casa è vòta e tanto granne; / dall’ottantotto ce stavamo in sette).

La sezione che chiude la raccolta è interamente dedicata ai ricordi giovanili che si stagliano nitidi nel cuore e nella mente: le corse (Me fionnavo giù da le scale/ corévo a scapicollo p’er cortile), i piccoli acquisti da portare a casa (Sora Rosa contava/ li spicci e comannava er marito/ a pijà la bottija); la bottega di cui il poeta ha un ricordo visivo e soprattutto olfattivo (senso primordiale e nostalgico) di un socché de pulito, e debbotto/ m’aripija la voja de fà/ quattro zompi pe’ strada/ e annàmmene via. Luoghi familiari, percorsi abituali di piazze e strade, quartieri, strade, e giardini e fontane zampillanti (quann’ero regazzino/ a Roma se chiamaveno nasoni/ ce staveno pe’ strade e pe’ cantoni); e ancora: San Giovanni (Ciannavàmo de sera senza affanni,/ su le panchine sempre quarcheduno), alcuni monumenti a eterna memoria (l’Altare della Patria, la statua equestre del Re) di abituali tragitti e fortuiti o cercati incontri con gli altri da sé. Riavvolto il filo del tempo di allora sino a ora, i versi di Maurizio Rossi ci incantano per lo stile semplice, impronta di un io lirico stemperato da una schietta ed essenziale pronuncia.

Maurizio Rossi scrive in lingua e in dialetto romanesco. Nel 2008 ha pubblicato la prima raccolta di poesie Dal pozzo al cielo e successivamente Tempo di tulipani, 2009; Sono aratro le parole, 2011 (Lietocolle); Che resta da fare, 2014 (Lietocolle); Cercanno leggerezza, 2015, in dialetto romanesco; La veglia e il sogno, 2019 (Collana Aperilibri, Ed. Cofine); Di sabbia e d’arancio canterò, 2023 (Ed. Cofine). Nel 2022 ha editato il romanzo La ruota di Duchamp (Ed. Cofine). Collabora con scritti e recensioni sul sito “Poeti del Parco” ed è redattore per la rivista “Periferie” diretta da Vincenzo Luciani e Manuel Cohen.