Marciani: il dolore e la parola

di Achille Serrao

Roma, 5 marzo 2007. – Di Marcello Marciani, la rivista Periferie si è occupata più volte, ha seguito il suo lavoro scommettendo ad ogni uscita editoriale su un’ulteriore crescita del suo operare riservato, nell’artificina di parole, forme e strutture che individuano uno stile.

Si diceva, in una delle occasioni di interesse per il suo fare,  che il costrutto poetico marcianiano evidenzia sempre una chiara, determinata e determinante progettualità; che di quando in quando (un quando avaro, quasi un settennio fra un volume e l’altro) il poeta lancianese propone non una silloge di testi sic et simpliciter, ma la strenua compattezza dell’opera, una densità d’opera affidata all’esclusivo consistere di ciascuna poesia e, insieme, alla ricercata connessione con le altre, sia sul piano linguistico che ideologico: un edificio che non mostra crepe, dunque, ed evidenzia piuttosto condensazione di effetti, per lo più straniati e stranianti, spesso in argini classici (metrici, nella gabbia del sonetto, ad esempio, o in quartine rinserrate di raro pregio) che appaiono ricerca primaria di “ordine” e che tali non sono perché inglobano stridori, scarti dalle norme, perfino esondazioni del dire.

La lingua di Marciani, anche questo si è rilevato via via, è lingua esperita con coraggio provocatorio: assume inesorabilmente, e sostanzialmente privilegia, uno sperimentalismo ricco e corposo. Vi si intravvede, con la lezione di alcuni grandi della letteratuta operativi nel “dis/senno”, un barocco figliato da una classica nourriture che si palesa nell’impiego di termini gergali, dialettali, neologismi,  arcaismi, inserti colloquiali e forestierismi.

Tanto proponevamo alla lettura, in particolare, di Per sensi e tempi, il libro apparso nel 2003. Con Nel mare della stanza (pubblicato nella stupefacente collezione della LietoColle (Faloppio CO) nel 2006) che peraltro si avvale di una articolata ed efficacissima postfazione di Mario Lunetta, nulla muta di quanto esposto. Possono riprodursi qui, pari pari, soprattutto per quanto si riferisce al linguaggio, le considerazioni svolte per il volume precedente. Con qualche attenuazione, forse, nel tono e nella coloritura espressionista del lessico, cui Marciani ha sempre rivolto meticolose cure; e ciò per la pregnanza, così per dire, del “tema” fondante dell’operetta: la morte della madre Regina (di nascita argentina) e il trauma che ne è conseguito. Argomento che, pur conservando intatto il tratto marcianiano, piega verso intime dolenti necessità espressive la parola e l’andatura sintattico-grammaticale: si avverte, insomma (e non si intende affatto segnalare un demerito sopravvenuto) che la dizione ora si declina in funzione di quella lacerante istanza, piuttosto che nel suo ruolo di accesa allarmata indipendenza formale. Senza che avvenga, tuttavia (mette in evidenza Lunetta nel suo scritto postfattivo), che l’io lirico si accampi centrale come luogo della sofferenza e  perda la funzione, svolta in Marciani da sempre, di “ospite ingrato se non di alieno ostile che andava comunque mantenuto a distanza di sicurezza”.

Nel mare della stanza è poesia dell’ultimo, ma che si vorrebbe ininterrotto, dialogo con la madre in cui sono ancora vivi lo sguardo e la parola di lei, il sospiro e il consiglio, l’amore profuso. Lo stato psicologico che la raccolta suggerisce non sembra quello della pulsione sentimentale, viscerale, spesso presente in tanti versi del compianto: si coglie piuttosto un mesto inclinare verso l’auscultazione di sé, la solitudine inappagata nel luogo sospeso, liquido che la stanza ormai vuota è divenuta, un appartarsi tormentato, ma virile, da una soglia coscienziale vigile dove il rifiuto della disperazione è accompagnato dall’attesa di eventi che della madre ripropongano la presenza: “Ridiventa vento, foglie fruscianti a scialo/ sonno che rimbocca tempi e angustie / pizzella che si gonfia con il latte. // Ridiventa conca dove mi affaccio / dove il mondo è tondofondo e caldo / è il respiro tuo che mi trabocca …” dice una poesia scritta nel dialetto frentano (il dialetto che Marciani possiede dalla nascita) e qui riprodotta nella traduzione italiana.

Al dialogo che rende quasi palpabile la figura invocata soccorre ciò che è stato, proposto sotto la specie del ricordo, da: “Vorrei calarmi a quando mi hai cambiato / la prima volta, a quella bianca bolla / di stupore e cipria … a: Sì dietro a me, a quando io non c’ero/ vorrei arrivare per trovarti ancora / al civico 6 della via De Crecchio …” Ma si tratta di un ricordo che “rincorre” l’oggi e si manifesta talmente vivido nella parola del poeta e talmente “presente”, da non rischiare nostalgiche soluzioni di continuità con il passato: è un mezzo invocato piuttosto per sostenere, anche soltanto nel desiderio, il dialogo amato che la scomparsa ha interrotto. Resterà questo rammemorare a sostenere la “meraviglia” che ancora suscita la donna-madre insostituibile, alla quale il figlio fa dono del suo dono: la poesia.