Loredana Bogliun: La peicia (La piccola)

Recensione di Nelvia Di Monte

 

Edita a Milano nel 1996, viene ora ripubblicata La peicia (La piccola) una raccolta di poesie scritte nell’idioma di Dignano d’Istria, luogo natale della poeta. Si tratta di una versione plurilingue: i testi in istroromanzo sono seguiti dalla versione in lingua italiana e dalle rispettive traduzioni in dialetto ciacavo giminese, lingua croata o lingua slovena. Considerando le drammatiche vicende storiche che hanno interessato la regione nel secondo dopoguerra (e i cui echi non si sono ancora spenti), a ragione Manuel Cohen, nell’odierna prefazione, sottolinea come il dignanese sia «la lingua di una koinè esodata, rimasta al di là dell’area slava e al di qua dei confini nazionali. Questa preziosa raccolta […] sembra lanciare nuovamente un grido e un ponte tra penisola italiana e mondo slavo».

Un’opera che già alla sua apparizione aveva raccolto attenzione e consensi, come dimostrano le osservazioni di Andrea Zanzotto e Franco Loi (che ne avevano scritto rispettivamente prefazione e postfazione) qui riportate, a cui si aggiunge l’interessante testo critico di Fulvio Tomizza, che analizzava la raccolta nel contesto istriano del periodo: «per forza di cose Loredana è vissuta e continua a vivere lontana dal fervido paese natio, nel frattempo ulteriormente ristrettosi e non poco alteratosi […]. Ad esso si è tenuta legata attraverso l’attività poetica che lo celebra vivo».

L’impegno politico e di promozione culturale da parte della Bogliun, per due mandati Vicepresidente della Giunta regionale istriana, i suoi studi, l’insegnamento universitario a Buie, mostrano che ben motivato e profondo è il suo rapporto con questo territorio, che non si tratta solo di rammemorare, idealizzandolo, un periodo lì trascorso. Se non sono unicamente letterari, dunque, i motivi che rendono importante la raccolta, è alla poesia che ci si deve rivolgere per comprendere come i testi e le parole della Bogliun siano riusciti a rendere «vivo» un mondo ormai profondamente mutato, e a non disperdere un patrimonio di storie e di vissuto fissandolo in molte pubblicazioni, da Mazere/Gromace/Muri a secco  del 1993, fino a sfisse/fessure spiragli (Cofine 2016) e Par Creisto inseina imbroio (Book Ed. 2021).  

Un percorso poetico lungo e coeso, variamente articolato nelle singole sillogi ma con alcune tematiche di fondo che costituiscono il substrato intimo, insieme individuale e condiviso nella familiarità con un luogo che, nonostante abbandono e ruveina (rovina), continua ad agire come paradigma del sentirsi partecipe di una storia comune che getta luci ed ombre nel presente.

Avendo conosciuto prima le opere successive, leggere ora i testi de La peicia è ritrovare le immagini archetipe che saranno riprese e ampliate nelle diverse sillogi, con nuovi ricordi di persone, descrizioni di esperienze che uniscono il passato all’attualità, pensieri che maturano nello scorrere degli anni. Un tratto particolare che emerge in questa raccolta è la tonalità che fonde lo stupore dell’infanzia con la riflessione disincantata (ma non pessimista) della persona adulta, un realismo schietto – su cose, paesaggi, animali – mescolato a momenti sospesi come nelle favole. E lo stile si modula per esprimere queste variazioni, con strofe a volte descrittive a cui seguono spazi vuoti e versi concisi, una lingua – il dialetto dignanese – impastato col silenzio: ʃì favela quista ch’a nasso / seita in tala pansa de la maro, / ouna fadeiga ch’a crisso drento / in tala louss ch’a reiva d’al scour //  ʃalo al culur de l’oro / ʃalo de fermentòn / e de poulenta calda // i passerè como piouma in tal fundai de maraveie (Parola questa che nasce / zitta nella pancia della madre / una fatica che cresce dentro / nella luce che arriva dal buio // giallo il colore dell’oro / giallo di granoturco / e di polenta calda // passerò come piuma nei fondali delle meraviglie). 

Loredana Bogliun rende il dialetto uno strumento malleabile in grado di esprimere pensieri, sensazioni, astrazioni, trasformando elementi concreti in figure simboliche, accostando immagini semplici e chiare a un sentire inquieto, come il suono di un violino nella contrada che suscita sia allegria sia la percezione di trovarsi nell’ “arsura del tempo / che ci ha costretto ad una carezza e una puntura”. Al senso di una sacralità che accumunava gli esseri viventi è subentrato il disgregarsi reale di un piccolo luogo della memoria, specchio della precarietà  del mondo contemporaneo: “A fì quii loghi ch’a i veci / iò impiantà piantade e ʃì crissoude cassie / vula ch’a ʃrudolandosse le maʃerole / fa montiʃei ch’a l’erba magna // al mundo al passa / e anca la louna geira, // Mei ancura i vaghi a turfolòn” (Sono quei luoghi dove i vecchi / hanno piantato vigne e sono cresciuti sterpi / dove srotolandosi i muretti di campagna / fanno montagnole che l’erba mangia // il mondo passa / e anche la luna gira. // Io vado ancora girovagando).

Ricorrente nella poesia della Bogliun è la presenza del padre, legato a quel paese nel paziente lavoro dei campi, simbolo della condivisione di un destino (“è mio padre che parla, la mia terra / imbastardita, fatta schiavona”) e partecipe di una genealogia che, tramite la figlia, già scorre nel futuro del nipote (“figlio mio tenero come lui”). Perché quel mondo è esistito e, anche se cambiato o in parte caduto in rovina, non è perduto finché rimane fonte di vita e di poesia: “Vignarò anca la boura, / suspeir liʃier de la me Eistria […] Feil de ierba ch’a no se rompo, / ouna fadeiga sula in tal seilensio / de la campagna. La veita” (Verrà anche la bora, / sospiro leggero della mia Istria […] Filo d’erba che non si rompe, / una fatica sola nel silenzio / della campagna. La vita).

 Loredana Bogliun: La peicia (La piccola, Arcipelago itaca Edizioni, Osimo 2023)