Le “Radici perdute

L’introduzione di Antonio Spagnuolo, la prefazione di Alfredo Rienzi e una breve scelta di poesie
“Radici Perdute” – Introduzione di Antonio Spagnuolo
 
Raccolta tra le più intense, che segna un punto di riferimento ben preciso nell’arco del proporre esperienze culturali, impegno sociale ed umano, alla scoperta di nuove e sempre affascinanti dimensioni della parola. Ciò che sembra naturale, in particolar modo per lo scrittore, è sempre un’illusione di quel flusso energetico che ci affascina per proporre avventure dell’io che, perdendo la sua unità interna, tenta di frantumare l’esperienza in varie dimensioni di schegge, che fondamentalmente propongono una continuità temporale, escludendo una entità astratta al di fuori di noi.
In effetti, aldilà dall’essere “eco-poesia” o “poesia intimista”, questa è poesia rivolta al sociale, a denunciare la realtà di oggi mediante la metafora, l’analogia e tutta quella connotazione simbolica affinché i termini: albero, radici, pioggia, vento, fiume, pietra, rapace con i suoi attributi, eccetera potessero rappresentare l’uomo e le condizioni esistenziali di cui l’uomo stesso è responsabile.
L’infinito che sovrasta il mondo con una particolare complessità interpretativa rende il viaggio di una urgenza e di una verticalità essenziali per cui ogni sperimentazione di scrittura si dilata in immaginazioni senza limiti, tra lo stupore e la meraviglia, tra fughe e spazi luminosi, tra differenze sostanziali per il visibile e l’invisibile, ed è in questa traiettoria che molti versi ci trasportano in visioni particolari tra il continuo disconoscere un mondo che vibra nel panorama attuale e la privilegiata condizione di guardare nel fulgidamente fluido ruolo dei riflessi.
 
In questa giungla di regressi solari
sono fiore dallo stelo piegato
a brividi palustri e solforica putredine.
 
Sono sofferenza dell’alba che svanisce
respiro che s’affievola nella resa
   dolore e pianto di vite che in resine
si disfano.
In me pietrificano forme di colore e musica
di altra origine
la speranza al temuto sparire
dell’arcobaleno e dei suoni delle ali in amore.
 
Il pulsare ha un battito antico e sembra essere modello stilistico all’interno di un campo che tende a privilegiare le dissonanze di un diario, di un fraseggio assemblato sul verso, capace di una vasta gamma di rappresentazioni con rifrazioni e dispiegamenti emotivi tali da rigenerarsi in continuazione:
 
Non so per quanto e perché scriverò versi
alla vita
ai suoi brevi trionfi
alle sue estensioni circolari e profonde
alle sue vittime forme indifese
su altari di pietra vulcanica
nera e rossa, rossa di sangue.
 
Ombre esatte dai contorni ben delineati, o precisioni malinconiche con sfumature di sogno sembrano realtà che si sfaldano, appassionate e bislacche, inquietanti e inesorabili, una fantasmagorica riproduzione che permette seduzioni avulse dal sinuoso fluire di un caleidoscopio.
L’universo è segnato dalla rifrazione, così come la capacità di penetrazione del simbolo non conosce tagli o scissioni che separino il significante dal significato, dietro ad una emozione viscerale che corre a stanare le ragioni stesse del sensibile.
Le metafore che Santamaria propone sono ricche di suggestioni, dense per le scene finali che contengono, in un senso ineffabile di risoluzioni, o soluzioni, che mascherano o addirittura suggeriscono il consumo del quotidiano.
Scivola per esse a volte un vuoto silenzioso che si riempie con la parola, a colmare la vacuità dell’esserci, per anticipare la scrittura in quelle interpretazioni di artista immerse nella continuità del disincanto. Ogni interpretazione si sposta facilmente dal segno misterico alla formula legata alle emozioni, alle sensazioni fisiche, che fungono infine da rivelazione dell’anima e dei sensi.
Ogni figura viene alla luce in forma concreta anche se il non detto, il sottaciuto, il misterico, sono trasformazioni di un mutamento che si insinua come un’ombra per sublimazione.
 
“Radici Perdute” – Prefazione di Alfredo Rienzi
 
Molti dei testi di “Radici perdute” affrontano risolutamente un tema nodale del fare poesia: quello della dicibilità delle cose e delle idee, del rapporto tra la parola detta e la parola velata, tra il pensiero-immagine mostrato e quello suggerito.
Come l’autore operi la sua scelta di campo, beninteso prevalente e non monolitica, chiara ma non scontata, potrà essere ben evidente al lettore e bastino ad orientare la risposta gli inequivoci appelli alle «foreste in catene» ed alle «traiettorie di piombo», il perentorio dire della «tortura della zolla resa polvere» e della «pietra del mattatoio», che, già dal testo di apertura, sostengono il dolente e vibrante racconto del poeta.
La eco ricorrente, per usare un quasi-invariante nella scrittura di Santamaria, riporta i rumori del male che affligge la civiltà, nelle sue ramificate forme. Un male che è più cronaca che mito, più oggetto di denuncia che di speculazione sociologica o filosofica; un male che si tocca, si subisce, senza comprenderlo e, proprio per questo, senza accettarlo.
Le key-words «radici» ed «alberi», da un lato, e «sangue» e «guerra», dall’altro, sono i cardini su cui si regge l’impostazione teorica della raccolta.
Che potremmo definire, per aggiungere chiarezza a chiarezza, ambientalista e pacifista. L’uso di queste categorie è ovviamente non casuale, per ribadire l’assoluta attualità di una significativa parte delle liriche di Santamaria. Con questo si vuole rimarcare il coraggio con cui l’autore costruisce la sua poetica: concreta un’operazione di chiarezza linguistica, pur disponendo e spandendo versi e testi di un meditato lirismo e di inquieta creatività, e soprattutto occupa uno spazio piuttosto disertato dalla pur frammentata poesia contemporanea: quello della denuncia e dell’impegno sociale e, se non vogliamo peccare di ipocrisia, diciamo pure chiaramente uno spazio politico, nel senso alto e globale del termine.
Questa operazione avrebbe potuto costeggiare il rischio di portare dentro il testo ciò che l’assuefazione al più o meno identificabile gusto poetico corrente (intimista o minimalista o metafisico, etc.) identifica come soggetto alieno o non familiare, trasferendo nel verso un metalinguaggio cronicistico o, ancora peggio, una eco ridondante in senso retorico. Al contrario, il lettore potrà da sé verificare come l’autore abbia dominato tale rischio e non potrà non accorgersi di quali mirabili percorsi Santamaria, «pellegrino / di terra gonfia di solitudine e sangue» abbia saputo tracciare con le parole su «una spiaggia con gli occhi dei fiori marini» o per «muti deserti di scorie».
La parola di Santamaria, chiara nell’intendimento e nitidamente comunicativa è, infatti, per intrinseca vocazione, lirica e si esprime al meglio nell’espansione, a raggiera, di nuclei visivi o concettuali con accelerazioni metaforiche e immaginifiche, dove risalta la capacità pittorica e «vocecolore» dell’autore anche sulla pagina, («il buio ha annerito le ali degli uccelli sanguinari»; «Vive in luce di cristallo il rapace»; «ogni ramo riapre / ad un fiore verde la sua attesa») e con folate di «vento-idea» di sofferta e illuminata coscienza: «La morte semina soltanto tracce di paradiso»; «ha ripreso / la storia il suo orizzonte a ritroso»; «La mia paura si tinge in terrore: /…/ che ogni ombra s’appiani alla terra, / senza poter più piegarsi / alle cose vicine / da amica».
Si osservi come la coesistenza, di urla ferali, come grida di poiana o di strillone («maree di cuccioli/ nudi nel nero cellofan della morte»; «Nemmeno la morte gode di tutte / queste stragi»; «strappiamo / gli steli incolpevoli dei campi»; «il rito / della beneficenza infetta») e delle pause sussurrate (di un «essere tremante» o di «fiore dallo stelo piegato» o delle poche parole incise con lo stelo di un fiore «per questo airone / che muore») generino un complessivo sentimento di pietas per le vicende dell’umanità e dell’individuo.
E c’è, per contro, in questo atro luogo dove si grida il male e dove si mormorano le debolezze della propria finitezza, la ripetuta posa del seme della speranza: «Ma resta nella terra – forse – / a nascere / un seme / sfida all’oblìo». Un seme che nasce da quello stesso albero («o albero/ radice della mia coscienza») caduto «a radice divelta / da furioso vento beffardo»; «a radici spiantate dal vento».
Così Santamaria fa eco, chiara e fedele, al titolo. “Radici perdute” che affondano, si badi, in più strati di significati e invadono aree simboliche e allegoriche diverse. Perduta è, secondo l’autore, la radice di una storia collettiva, non tanto dal suo tronco consolidato, che forse mai possiamo descrivere in assoluto come florido, verdeggiante, fruttuoso, ma da quelle occasioni, che pure nascono, appaiono come pianticelle coltivabili, alberelli della speranza che epoca dopo epoca portano qualche frutto ma che spesso vengono poi provati, piegati e sradicati dal vento intollerante del desiderio di potere. Perduta è la radice della propria vicenda individuale, messa a nudo da una terra che è solo più memoria e da un tempo che non si vuole fermare: «Essere ramo che non è più». Sommessamente, dove la voce del poeta si fa più intima e dolente è perduta anche quella radice che solo al buio dà ancora voce di sé, «confusa a quella delle cose» a portare «il ricordo dei nostri rami» e «il delirio amoroso delle foglie di primavera».
Una raccolta di testi, quindi, che si radica, letteralmente, nel qui-ed-ora, con forte contestualizzazione (già visibile in molti titoli: Nuovi obiettivi; Sangue d’est, Millenium tertium) ma al tempo stesso sa elevarsi a racconto epico, del debole, uomo o elemento naturale che sia, che sa resistere al gorgo di una rassegnazione annichilente, morale ed esistenziale (Alla fine, Cavalchiamo una bestia, In corsia, Essere ramo) senza mai riporre il vessillo della speranza (Un folle sperare, La città di nuvola bianca), anzi spesso urlando il suo diritto ad esserci. Una raccolta, dunque, che sa sfociare nell’universale senza perdere la capacità di un intimo raccoglimento del sé.
Coerente con la sincerità del suo dettato l’autore si chiede «non so per quanto e perché scriverò versi». Ma è la pagina stessa che risponde: c’è una «sola strada / che porta alla città di nuvola bianca / sull’alba», mitico ed uranico luogo dove «profumano gli alberi di verde e di frutti / maturi», dove «scorrono i fiumi / delle dolci parole».
Santamaria ha il sangue contaminato dalla follia dei poeti, gli occhi aguzzi sulle mutevoli forme del mondo, e questa strada non potrà che percorrerla, fino in fondo, ascoltando l’eco «dei giorni sulle stoppie» e «degli spiriti nel vento» e sentire il dovere, parola per parola, di ridarcene la voce e il colore.
 
 
Franco Santamaria è nato nel 1937 a Tursi, centro della provincia di Matera, in Lucania. Nonostante sia vissuto fin da ragazzo quasi sempre lontano dal luogo di nascita, è rimasto indissolubilmente legato alla sua terra, ritenendola il simbolo dell’annoso e grave malessere di tutto il mondo contadino, privo della necessaria forza ideale per il proprio riscatto.
Da Taranto, dove ha trascorso la sua gioventù, nel 1965 si è trasferito prima a Napoli, poi, nel 1990, nella cittadina della periferia di Napoli, Afragòla, presso il cui I.P.S.S.C.T. (Istituto Professionale di Stato per i Servizi Commerciali e Turistici) ha ricoperto la cattedra di Letteratura Italiana e Storia, fino al collocamento in pensione. Attualmente risiede nella cittadina di Poviglio, in provincia di Reggio Emilia. 
Laureato in Lettere e Filosofia, abilitato nell’insegnamento delle Letterature classiche, della Letteratura Italiana e della Storia, ha dedicato il maggior tempo, oltre alla famiglia (tra l’altro, con gravi preoccupazioni e dolore per la salute e perdita della moglie, morta in giovane età dopo lunga malattia), alla scuola, realizzando con studenti e colleghi un magnifico rapporto di amicizia, collaborazione e tensione per una didattica moderna e più vicina ai bisogni dei giovani.
Solo dopo il pensionamento, si è dedicato con maggiore tranquillità e impegno all’attività di poesia, di narrativa e di pittura, oltre che di promozione culturale, che, in precedenza, aveva dovuto porre in secondo piano.
È presente su riviste letterarie (Gradiva, Prospektiva, Osservatorio Letterario, Tam Tam di Scrittori Poeti e Artisti, Il Convivio, La Ciminiera, Poeti e Poesie, Omero, Carta e Penna, etc.), su antologie (Racconti d’evasione, Agenda del Poeta, Artenuova per la Pace, Voci del Duemila voll. 1-2-3, E il naufragar m’è dolce in questa radio…, Pace e libertà, Exodus, Isole in viaggio, Estate Poetica 2005, Estate Poetica 2006, Antologia 2006-Autori della "Cesare Viviani", etc.), su un centinaio di portali web di letteratura e gallerie d’arte. Partecipa a reading di poesia e di narrativa. Partecipa raramente, invece, a concorsi letterari o artistici.
Ha redatto, senza alcun contributo esterno, ma solo con il suo sacrificio e con la sua passione per la cultura, la NewsMail "Rassegna Siti Culturali", l’unica (finora) newsletter al mondo di recensione e di segnalazione di siti a carattere culturale (più di 500 siti tra italiani e stranieri).
Per la gravosità del compito, ha dovuto ripiegare poi su un notiziario di eventi culturali redatto per 2 anni ("News2004/x" e "News2005/x"), sostituito a gennaio del 2006 dalla newsletter "Modul@zioni", inviata il 15 e il 30 di ogni mese a migliaia di iscritti, sostituita a sua volta da una sezione apposita ("Eventi") nel sito www.modulazioni.it.
Nel 1964 ha pubblicato "Primo lievito" (Gastaldi, Milano – poesie), nel 1997 "Storie di echi" (Ferraro, Napoli – poesie), nel 2004 "Echi ad incastro" (Joker, Novi Ligure – poesie), nel 2005 "Se la catena non si spezza" (Bastogi, Foggia – racconti), nel 2007 "Passaggi d’ombra" (El Taller del Poeta, Spagna – racconti), nel 2009 "Radici Perdute" (Kairòs Edizioni – poesie)
Altre opere, "La mia valle non è l’Eden" (poesie), "Parola e Immagine" (poesia e pittura) e, infine, "I cavalli di grano" (romanzo), sono inedite su carta, ma pubblicate in www.modulazioni.it.
 
 
Ritorno di emigrato
 
Quando giungono treni alla stazione
non vi sono livree lungo i binari
ad accogliere memorie di speranze di ritorno
immobili e disfatte nei vagoni.
 
Anche ritorna l’airone alla nuda
dimora della creta.
Gli hanno rifatto le penne
di colore strano
sui monti dai fianchi in fiamme o aperti
alla vittoria della pioggia
sulle atmosfere più acide e smorte
sui laghi dove si spengono leggende
di mostri giganti
sul morto suono delle città solitarie.
 
È volato in alto
più in alto
con penne rifatte e incolori l’airone
per riprovare l’acerbo sapore della terra
dove i fiumi si svegliano d’inverno
e risentire l’eco dei giorni sulle stoppie
l’eco delle note alla luna
che scopriva sogni tra i pampini
l’eco degli spiriti nel vento
dov’era delirio di amore e di paura.
 
Fermati, tempo, e incidi sulla pietra dei fiumi
con lo stelo di un fiore
poche parole per questo airone
che muore.
 
Un folle sperare
 
Mi sono fatto speranza d’una terra-fanciulla
uscente da antiche caverne
per solo gioire dei colori del giorno.
 
Mi sono fatto speranza di bui sentieri
d’ubriacarsi di luce
speranza di scoscese pietraie
di polirsi a vene d’acqua pura
speranza di roventi deserti
di nutrire radici di vita.
 
È stato un folle
sperare un profumo di abbracci redenti.
 
E la mia voce più non ha senso
più non è canto né cuore
di ciò che esplodere voleva in fiore
e frutto e seme
nei riverberi del giorno pieno
in rapidi guizzi ed estesi abbandoni marini.
 
Sono finiti i sogni della colomba
nel rosso delle macerie e dei campi minati
nel liquido infetto umidore della terra che muore
senza difesa.
 
 
Echi di mare
 
Il mare ha rubato schiuma
di cavalli in corsa stanotte; ora stanco
rallenta i cerchi d’onda
franti
che allinea alla fragilità della sabbia.
 
Odo echi lontani confusi
dei quali dispero
un chiaro segno nel grido del gabbiano
solitario e lento
nel fruscio arenoso degli ossi di seppia,
scheletri natanti di carta.
 
È da folle cercare ancora risposte
per ansiti che finiscono prima del lontano
barcollante pontile.
È morte, lo sai, salata e liquida
gonfia dei resti rifiutati
da denti parassiti
e stretti in stracci di alghe vaganti.
                              Morte
 
solo morte non naturale
schiantata contro le punte dei coralli
o dei distacchi degli iceberg senza ritorno
esplosa sui fondali
con le stesse criminali volontà delle guerre
affogata nell’agitazione dei marosi
o suicida in scherno al proprio affanno di vita.
Il grido si perde lontano in brevi echi
                              struggenti…
 
Scavo con un piede a sestante
una culla di sabbia
tra l’una e l’altra ondata
per accogliervi una mano di cielo riflessa

per scoprirvi presenze ancora vive. 

“Franco Santamaria "Radici Perdute" (Kairòs Edizioni, Napoli, 2009)