Le formiche di Ombretta Ciurnelli

Le annotazioni di Maria Paola Bartocci e Brunella Bruschi

Se ogni libro è un percorso, ogni lettura è un viaggio. E così Si curron le formiche  [Guerra Edizioni, 2010] di Ombretta Ciurnelli traccia il suo itinerario di versi in un viaggio a ritroso nel pas-sato, nella memoria, alla ricerca dei ricordi d’infanzia e gioventù, di quelle “parole perdute” un tempo spontaneamente apprese, poi distrat-tamente dimenticate e infine, oggi, consapevol-mente ritrovate, riscoperte, ascoltate con le o-recchie attente della maturità, nel silenzio saggio di un’esperienza che finalmente comprende, gu-sta e assapora le sonorità ruvide e raspose di quelle parole in dialetto, i “mi mótte de j’anne più cèrbe ”.

In questa personalissima ricerca di un tempo mai del tutto perduto, i ricordi sono muliche, briciole metaforiche, nutrimento di cui le meta-poetiche parole-formiche si cibano nel loro iti-nerare cadenzato e sinuoso. Esse avanzano len-tamente ma con precisione, a volte spaventate ma tenaci, tra pause e riprese, luci ed ombre, ti-more e tremore, sorpresa o sgomento, ma sem-pre con un obiettivo in vista.

Si muovono ordinatamente, in processione, specchiando e oggettivando nel loro andamento intento la processione di volti vecchi e nuovi che via via riemergono dagli angoli semibui della coscienza, insieme ai luoghi e agli scenari esplo-rati da bambina, coi loro segni da decifrare e i rumori che risuonano di echi fino a diventare gli sfondi vividi di un simbolico paesaggio interiore.
E il passato finisce così per tornare ad abitare il presente, un presente diverso, arricchito, illu-minato… in cui “tutto si tiene” e tutto torna perché il tempo lineare in fondo è un’illusione e, come nei Quattro Quartetti di Eliot, la sua essenza è ciclica, ri-corre: i giorni vissuti come foglie secche si sbriciolano… ma tornano poi, concime nella terra, a farne nascere di nuove.

L’itinerario di queste formiche, come quello di Pollicino, è un percorso verso casa, un ritorno alle radici del proprio essere, sulle tracce della propria identità. Sassolini o briciole, esse cercano indizi, segni, simboli in un semiotico inse-guimento del tempo già vissuto: parole e pensieri si rincorrono all’infinito… e quando, nel viluppo di emozioni e memorie, il Senso finalmente si rivela, esso è come un segreto svelato – l’affanno toglie il fiato, lo stupore stringe il respiro e la voce per dirlo ci manca; è allora che le parole-formiche corrono in soccorso, catturandolo in scarabocchi d’inchiostro sparsi nero su bianco sul foglio, che si seguono l’un l’altro inin-terrottamente, senza mai fermarsi, come formi-che di Escher in bilico su un nastro di Moe-bius…
Nota al libro di Maria Paola Bartocci

Nota Critica di Brunella Bruschi

Per me vita e scritura/ ène compagni, el sai/ tuta scancelatura/ dopo dulor de sbai (Per me vita e scrittura/ sono compagni, lo sai/ tutta cancellatura/ dopo dolore di sbagli): così il grande Franco Scataglini in So’ rimaso la spina del ’77, e da questi versi indimenticabili vorrei partire per afferrare il bandolo di una riflessione sul pregevole e personale lavoro di Ombretta Ciurnelli nel suo terzo libro Si curron le formiche.

Qui, infatti, l’esito che più si coglie nella lettura è un’avviata capacità di coniugare esperienza concreta ed elaborazione espressiva, di far coincidere il linguaggio (inteso come complesso di lessico, morfologia, trame ritmico-sonore, strutture metriche e così via) con il pensiero poetico. Ed anche a proposito dell’incidenza tra realtà e pensiero, dell’impasto tra nuclei meditativi e “cose”, non si può evitare di ricordare il maestro della lirica dialettale del secondo Novecento: Era idea ed era cosa/ quel bociòlo de rosa (Era idea ed era cosa/ quel bocciolo di rosa).

E proprio questa essenziale coincidenza si incontra subito nel primo stralcio della lirica d’apertura posto in epigrafe alla sezione Muliche: e camino arcercanno muliche/ ntno stradello arcuperto de sterpe/ dua le storie de l curre de l tempo/ le formiche ònno scritto gni pòsto (e cammino ricercando briciole/ in un viottolo ricoperto di sterpi/ dove le storie del correre del tempo/ le formiche hanno scritto in ogni luogo).

È, infatti, facilmente percepibile come questo angolo di paesaggio campestre palpiti di vita vera al pari della traccia visibile del passaggio di formiche in cerca di cibo e rifugio, benché altrettanto limpido risulti il pensiero della scrittura che fruga nelle cose con moto anche caotico, quasi freneticamente saggiando tutte le possibili direzioni con la sua vocazione investigativa, la cui fondamentale istanza è il tentativo di cogliere labili e diverse forme del tempo che tramano gli eventi e l’esistenza.

L’impasto tra immagine e idea è così profondamente intrinseco al sentire, all’esserci (all’essere), che appare come naturale e indelebile, soprattutto per questa scansione di una musicalità anapestica che anima il verso, lo fa vibrare e muovere nel solco tracciato dalle formiche e dalle storie di vita consumate e ridotte ormai in frammenti per lo più impercettibili da rintracciare e ricuperare.

Così si annuncia con leggerezza e visibilità calviniane questo terzo libro di Ombretta, che propone fin dal testo citato, ma nel suo complesso di tessuto (espressivo, narrativo e più, direi, di rappresentazione franta ed impressionistica, per flash ed epifanie) forgiato in continui rimandi, intelaiature sottili, trame di memoria e sogno, anche una molteplicità organica e ben risolta in concezione del mondo.

Non è un caso che l’Autrice abbia affidato ai primi due volumi un riscontro di più circoscritte proporzioni, quasi a voler saggiare strumenti, materiali e risorse, per così dire, di un avvio alla scrittura consapevole e non indolore.

In Badarellasse ncle parole l’abbecedario di acrostici realizza una ricognizione lessicale e retorica intrinseca ad un’introspezione dell’anima tra pena e desiderio. Ne L’arcontastorie Ombretta si immedesima in quei personaggi di un’arcaica civiltà ormai estinta, depositari di preziosi patrimoni di oralità, narrando vicende di donne drammatiche quanto reali, perché in quella civiltà fortemente inscritte e che ne indagano efficacemente il substrato anche violento e inconsapevole della femminile dignità. E qui il rimando concreto è proprio al linguaggio di quei cosiddetti “fogli volanti” che erano supporto al narrare e che in alcuni casi sono rimasti come preziosa testimonianza di vita e comunicazione spettacolare. E non è un caso che già in questo libro il confronto con un idioma dialettale aguzzo, aspro e per nulla incline a concessioni nostalgiche o autoreferenziali è evidente nel respiro narrativo, sapientemente assunto a primo ambito di verifica e sperimentazione.

Si curron le formiche è la felice analogia in cui i due termini finali della “proporzione” sono sottintesi, ma annunciati dalla sospensione del sintagma che, privo della principale/apodosi, conduce in qualche modo anche a ipotizzare subito il senso traslato: formiche che corrono/ricordi smarriti in labili tracce.

Da qui si dipana la rievocazione di un mondo circoscritto d’infanzia che via via si ramifica nella rappresentazione di una più vasta realtà storico-sociale e nel contempo di una sofferta quanto pudicamente dissimulata disamina interiore, che aspira con difficoltà (e forse senza costrutto alcuno, né riscontro) a ricostruire un puzzle memoriale non regressivo, ma sostanzialmente rivolto alle prospettive dell’oggi, eppure inesorabilmente dissolto nelle sue sfrangiate tessere.

Per tutto ciò che è stato premesso ha qui un’evidenza determinante ed essenziale l’adozione che l’Autrice fa del “parlar materno” (dialetto, διάέξισ: lingua che opera uno scarto, si oppone ad una norma), con le sue peculiarità restrittive ed anche inclusive, poiché, nella fattispecie, si tratta, fra quelli delle origini, dell’idioma più contiguo al latino e, pur senza una grande continuità letteraria nel tempo, anche di uno dei più fertili nella poesia di quell’età: tali sono tutti i dialetti umbri.

Affermare questo può sembrare scontato, ma l’uso che Ombretta fa del dialetto di una particolare area del Perugino, già connotato da una fonetica e da un lessico un po’ sui generis, perché distanti sia da quelli della lingua madre sia da quelli di altri dialetti locali, è un uso per cui sostanzialmente il significante non è strumento, ma esso stesso senso, cosa. Così alcuni termini chiave del suo verso divengono radice, struttura implicita degli oggetti e diagenesi del divenire esistenziale, parola in atto di includere timbri, ritmi e musica del vivere quotidiano e del pensiero che ne consegue.

Esemplare del fenomeno è la parola zzinfonìa (anche accostata con effetti allitteranti a ruzze e zzòffia), che ricorre in alcuni testi in ascolto della voce del fiume o del vento, e che, oltre ad essere un’evidente onomatopea dell’aspetto musicale, iterativo e durativo del concerto vero e proprio, ha un’etimologica contiguità con il termine zampogna, che designa l’oggetto archetipico dell’espressione musicale (e del canto bucolico) fin dalla poesia classica.

Ricordo a tal proposito anche muccì, bujacca, flusumìe (fuggire, fanghiglia, volti o fisionomie) e, tutte in Si dóppo: gauccelo ngruvièto, sgluppeno (gomitolo intricato, districano), e ancora ranzle zzeppite e temènze, còpple ncrostète d’arcòrde (rancori soffocati e paure, croste incrostate di ricordi), che più che singole parole sono aggregati verbali, grumi di risonanze aspre, pungenti, invasive, perché cariche di corporeità, mentre nello stridìo discrepante delle iterazioni sonore multiple che le attraversano rivelano il vasto cammino percorso per nutrirsi di traslate e inconsuete valenze semiche.

Come non pensare, allora, alla tensione stilistica realizzata nel verso jacoponico, non solo da un’insistita riproduzione rimica, ma anche dal raptus di una φωνή mista di grida, balbettii, grotteschi espressionismi sonori che daranno luogo a vera e propria drammaturgia?

Siamo ovviamente lontani dalla “sacra pazzìa” del tuderte, poiché questa lirica dà voce non solo ad una personale esperienza, sebbene filtrata ed universalizzata nel canto e nella prospettiva onirica ed epifanica, ma soprattutto alla condizione dell’uomo moderno che non trova radici in un passato dissolto, né sensi per un progetto futuro, che in luogo di fedi granitiche coltiva l’affanno di decifrare frammenti insignificanti, briciole sporadiche senza continuità e sensi.

Si è comunemente portati a pensare che il dialetto abbia (sia) l’intenzione dell’anima, in quanto naturalmente connesso con le affezioni sentimentali, con le immediate emozionalità inscritte nel quotidiano, a fronte di un’espressione in lingua più tendente alla formalizzazione astratta. Ed è proprio questa dicotomia che si è un po’ sclerotizzata in alcune realtà marginali, laddove talvolta ha preso il sopravvento il folklore, la facile boutade o l’epidermica laudatio temporis acti, insomma un approccio consolatorio e di puro intrattenimento.

Un carattere, questo, che trae fondamento da un dato storico ben definito: l’aristocratico arroccamento della lingua “alta”, del modello bembesco, che si impose fin dal Rinascimento alla nostra tradizione letteraria dichiarando il dialetto “codice inferiore” perché aduso a parlare un linguaggio “comico-realistico”e trasgressivo della norma codificata.

Ciò è ben rappresentato in un’incisione del tempo, realizzata ad opera di un fiammingo allievo di Dürer, Erhard Shön, in cui si contrappone all’immagine di Giona che riemerge dal ventre della balena un groviglio di segni che di primo acchito appaiono indecifrabili (il quadro si chiama Wast siehst du?- Cosa vedi? – o Wexierbild – Quadro con segreto), ma di scorcio mostrano un personaggio in atto di defecare.

Dunque insieme salvezza, riscatto e basso materiale corporeo, come direbbe Bachtin, che si oppongono come sublime e comico, modello e antimodello, che si fronteggiano nella maggior parte delle letterature romanze.

Eppure nella diglossìa italiana di lingua-dialetto l’anamorfosi (così è definito il quadro da Franco Brevini, che lo cita appunto come emblema di un contrasto) è, in realtà, vera e propria dialettica e struttura portante dell’espressione letteraria tout court, soprattutto nel Novecento, in cui s’infrange il confine tra comico e tragico, per dar luogo al grottesco, al disperato riso, alla allegrìa di naufragi, come testimoniano non solo direttamente i poeti, ma anche i più illustri studiosi del fenomeno, da Contini a Segre a Beccaria.

Tornando, dunque, al testo analizzato che mostra, al pari di grandi esempi di poesia dialettale contemporanea (da Scataglini a Loi, da Baldini a Pierro), un vitale, costante confronto con la letteratura in lingua e un’apertura a temi e motivi più vasti del comune stereotipo, si può con certezza ritenere che il dialetto sia in grado di parlare di tutto, e che l’idea che possa pronunciare solo limitate realtà si è spesso affermata e protratta non perché esso non fosse in grado di dire altro, ma più probabilmente per il suo carattere di idioma “sconfitto”, prima sul piano letterario e poi su quello dell’uso.

Se, dunque, la tradizione aulica ha applicato mezzi illustri per conseguire illustri elaborati, all’inverso la tradizione dialettale ha attinto a strumenti “bassi” per ottenere un prodotto parodistico e “basso”.

Ma, in realtà, la più innovativa dialettalità novecentesca, che, peraltro, per lo più, crea una lingua poetica pressoché autonoma e distante tanto dalla lingua madre quanto dal dialetto parlato, mescola le carte perseguendo mete più ambiziose attraverso i mezzi circoscritti di cui dispone: basta pensare a Pasolini, Giotti, Marin, accanto ai già citati.

Così non si tratta, credo, di negare la realtà del dialetto, ma piuttosto di sfidarla, ampliandone le potenzialità, fare un punto di forza del suo aspetto di lingua “humilior”.

Ombretta su questa falsariga fa dell’idioma materno un vero e proprio laboratorio sperimentale di notevole interesse, che produce un originale equilibrio, una viva tensione fra venature letterarie, flash visionari e scabri scorci realistici.

Innanzitutto nella lettura è chiaramente percepibile il fatto che l’adozione del sermon natìo, come lo definisce il Parini, lungi dal distogliere l’attenzione alla lingua madre, solleciti continuamente confronti, se non altro per il contrasto fonetico ed etimologico di molti termini, direi peregrini, assunti di preferenza fra gli altri e resi strumento di una ricorsività d’immagini e idee, come muccito, bigarume (fuggito, trastullo o cosa di piccolo conto) e derivati, arsumìjo, alossèta, còpple (fotografia o ritratto, sfinita, croste) e così via.

Ma soprattutto l’acribìa linguistica dell’Autrice si rileva nel suo frequente lavoro di ampliamento semantico, nel suo traslare le parole. Ad esempio il lemma ranzla che sta propriamente per “raschiarella, lieve fastidio alla gola che procura conati di tosse”, assume spesso nella sua scrittura il valore di tròpo, nel senso di “conflitto, motivo di scontro, rancore” o, anche più frequentemente, funzionano in questo senso originali stilemi marcati dal forte timbro metaforico, come nel libro in questione: c’è n montone de stelle ardunèto/che bagaja na nèbbia de luce (c’è un ammasso di stelle radunato/ che urla una nebbia di luce).

E in questa breve ricognizione stilistica si può osservare come tratto distintivo della raccolta si riveli il segmento retorico, caratterizzato precipuamente da sinalèfe, anastrofe, anafora e similitudine.

La prima occorrenza, istituto dalla funzione eminentemente fonica, ha, nell’ambito di una ricerca metrica sperimentale delle differenti misure del verso e delle diverse soluzioni strofiche, il fine di conferire al ritmo una fluidità che dà respiro all’immagine esaltando timbri, pause e inarcamenti, e che trama connotativamente il testo di sensi riposti, allusioni, sviluppi sottesi del pensiero come in filigrana.

Della tradizione “alta” si innesta spesso nella poesia di questa raccolta, fra le dissonanze taglienti della fonetica dialettale, l’anastrofe, figura di parola, con un effetto contrastivo potente, e che in qualche caso assume l’aspetto di hýsteron próteron, come, rispettivamente, nei casi seguenti: e l borbottè arcapézza (e il borbottare recupera), o ancora che n monno antico ntle ranzle afoghèto (che un mondo antico nei rancori affogato), oppure: ormò prescioloso/ l sole addietr’al monte/ nton batte d’occhie/ a riscónnese mucce (ormai frettoloso/ il sole dietro il monte/ in un batter d’occhi/ a nascondersi fugge).

Così compare l’anafora, figura d’espressione e dell’insistenza, accanto al poliptoto, volti a intensificare in crescendo impressioni o intenzioni determinanti, come ad esempio: che saje n salita o ntol fonno ch’è più fonno (che sale in salita o nel fondo che è più profondo), l’iterazione fonica: Da supra la giostra/ che forte ciabira (Da sopra la giostra/ che forte ci fa girare), ed altri espedienti che esplicano una funzione “straniante” in concomitanza con le pause e i traslati di cui si è detto.

L’espediente retorico più frequente è, tuttavia, la similitudine in cui, non a caso, si riconnettono la tradizione “alta” e quella “popolare” dei cantastorie e dell’oralità originaria. Questa figura logica nel libro è quasi sempre similitudine di uguaglianza ed è introdotta alternativamente da tre diversi funzionali: còme, mò e guèso, il termine più ricorrente.

È interessante notare come questa ampiezza di possibilità rientri nella ricerca che caratterizza tutta la produzione di Ombretta, volta ad ampliare le potenzialità espressive del dialetto, nella consapevolezza delle sue “naturali” angustie lessicali e strutturali.

Si può, infatti, rilevare che le tre modalità assumono diverse sfumature di senso: sembra avere la funzione di avvicinare il più possibile i due termini del paragone, quasi esprimendo una volontà delle cose ad acquisire anche aspetti, nature diverse, come in Adè dua vo: che quil che discurremme/ mò n albro fusse/ ntol bón de la fiorita (che quello di cui parlavamo/ come un albero fosse/ nel pieno della fioritura), e per far prevalere nettamente la seconda immagine che caratterizza quasi totalmente il ricordo, così che le parole siano foglie che rapidamente proliferano nell’illusione.

All’inverso còme appare voler indugiare, creare una distanza tra i fattori della comparazione, per focalizzarli parimenti e quasi nei loro diversi contesti. Vedi: e còme l liévto l cor s’è gonfieto (e come il lievito il cuore si è gonfiato), in cui coesistono senza interferenza le due immagini, la concreta e l’astratta.

Per ciò che concerne, invece, guèso, noto che è talvolta la funzione modificante di questo lemma a creare una diversa comparazione, che fa emergere una sorta di mediazione fra i due referenti, così che si solleciti nel pensiero quasi un terzo termine a cui riferire entrambi, come ad esempio in E nì quil tempo, dove i versi recitano: E i motte antiche/ guèso anebbiete dal bel discurre… (E le parole antiche/ quasi annebbiate dal bel parlare…). Qui le antiche parole sono ancora vive di fronte al bel discurre, in perfetto equilibrio fra loro, ma anche con l’idea più generale del comunicare e del conseguente riflettere. Diversamente in Còme n pensiero c’è l’uso funzionale analogo a quello di e còme (quasi fosse un pensiero).

Tuttavia le occorrenze formali, di cui le citate sono ovviamente appena un breve stralcio esemplificativo, (ma direi, forse esemplare), sono soltanto alcuni espedienti affinché la sofferta rappresentazione di un mondo familiare ormai dissolto (ma anche di un mondo interiore che continua ad essere) divenga incessantemente tessuto sempre più saldo di una visione del reale, se non in un’affermazione definitiva, certo in forma di argomentata ipotesi della negazione e dell’impossibilità.

Si compone, infatti, a chiazze sempre più dense un’infanzia scandita da concreti gesti di un fare che garantiva la vita, le relazioni e le dimensioni del tempo, che la poesia definisce ora nella circolarità dei ritorni, ora in una linearità di fuga, ora nell’ossessività della stasi apparente.

Gli eventi sono sguardi ansiosi, magre parole, investiti di luce epifanica che non ha nulla di compiaciuto e consolatorio, ma si accorda a volte alla presente coloritura meditativa e dolente, a volte rimane distanziata da diegetico stupore o da meraviglia di aver saputo esercitare la difficile maieutica memoriale, ma sempre offre alla poesia nitidi profili di verità per essere intrisa di un’autentica pena investigativa, che resta, peraltro, in filigrana a versi talvolta anche esuberanti e ricchi di linfe vitali: insomma, insieme asperitas e suavitas (scavo lacerante e naïveté).

Ombretta riesce a colmare il verso dei sensi che nel vivere acquista il recupero esperienziale dell’infanzia, di cui è stato detto che è forse l’unica vera esperienza della vita, ma in questa non oleografica prospettiva riportare alla luce ciò che è sommerso nella mente e nelle fibre del corpo è foriero di dolore e smarrimento, non sempre di consolatorie pienezze, piuttosto di perdita e paralizzante impotenza.

Così il libro è sottilmente attraversato da impercettibili rumori che si sommano via via fino ad essere chiasso, allo stesso modo in cui parallelamente si compone l’immagine delle formiche che si accalcano in direzioni sempre più invadenti, sono frammenti di ricordo ingigantiti dalla moviola del cuore, di idee che si affacciano prima senza evidenza, ma poi sempre più inquietanti, come le parole che faticano a disporsi in organica comunicazione poetica, perché nel comporsi scaturiscono caoticamente nel verso.

E qui viene ancora in mente l’amato Scataglini, proprio in ordine al tema della lacerazione che la scrittura può procurare a chi ne fa il proprio universo: Se cerca ‘n sòno lindo/ drento de sé e se trova/ el biatolà d’un dindo/ spèrsose ‘ntela piova (Si cerca un suono limpido/ dentro sé e si trova/ il biascicare di un tacchino/ persosi nella pioggia).

Le formiche sono i pezzi rimasti dentro di un vissuto calcificato nelle riposte pieghe del corpo e dell’anima e la fatica di vivere (il πόνος della tragedia classica nel non sapere la direzione, il senso), l’impossibilità a volte di contrastare l’asprezza degli elementi naturali come le occulte trame di un fatum inesorabile: le formiche sono, in definitiva, la nostra fragilità e insieme la nostra irrinunciabile intenzione (tensione) affettiva, sentimentale, interlocutoria.

Il fil rouge che rappresenta tutto ciò è appunto la crescente focalizzazione di questi apparentemente insignificanti insetti, ma anche letali, e l’ascolto via via più puntuale dei suoni che li accompagnano: suoni esterni, l’erba che cresce, il vento, le stesse file di formiche sulla terra … e suoni interiori che evocano le parole di chi non c’è più, i frammenti emotivi dell’infanzia, lo stupore che si fa pena, il pudore, ancora presenti nell’adulto.

L’immagine trae spesso un’evidenza proprio dalle relazioni sinestetiche tra le diverse sollecitazioni sensoriali del vedere e del sentire.

Esser poeta autentico è, forse “nell’inclusività” che sa far affiorare la poesia dalle risorse inesplorate del non poetico (vedi T. S. Eliot), e nella “transitività” (vedi G. Raboni) che implica un’ubiquità del pensiero poetico, il superamento della vocazione a manifestarsi in un luogo privilegiato, la qualità di non darsi mai completamente, il segreto di vivere e lasciarsi nutrire da tutto: in questi aspetti l’adozione del dialetto può avere, se lo si indaga e rifonda nella scrittura, quasi una priorità sulla lingua codificata.

Sebbene resti il fatto che, come recitano alcuni versi  di Franco Loi e come indica in questo bel libro anche Ombretta Ciurnelli, Forsi puèta l’è cume ne la mort/ che vita la diventa nel sugnàss/ o forsi cum’el sû che tütt riscalda/ ma lü nel fregg ghe tuca de restà…/ Forsi nessün le sa perchè ‘l puèta/ tucca la vita e lè le frisa e va (Forse il poeta è come la morte/ che diventa vita nel sognare/ o forse come il sole che tutto riscalda/ ma lui nel freddo gli tocca rimanere…/ Forse nessuno lo sa perché il poeta/ tocca la vita e lei lo sfiora e va).

Muccite da n’idéa

Muccite da n’idéa che abira forte
nco n ardijón d’arbuldechè ta l monno
quan chèdon giù da l’àbise ntol fojo
arèsteno spaurete ntra le righe
e l verso fòn fatiga p’artrovallo
mò fùsseno formiche sott’a l’acqua
che curron nun sòn manco lore dua

Fuggite da un’idea – Fuggite da un’idea che gira forte| con un ardire da rovesciare il mondo| quando cadono giù dalla matita sul foglio| restano spaventate tra le righe| e il verso fan fatica per trovarlo| come fossero formiche sotto la pioggia| che corrono non sanno nemmeno loro dove

Scolta

Scolta ntol fón de n’ombra
de l vento tutt’i clóre
ligia ntna coccia d’albro
l tempo che c’è muccito
chiappa na girigiòla
che cià discurso n fiore
scupre ntol buj de l bosco
le mulichìn dla luce
e l borbottè arcapézza
che n temporale à ditto

cussì tu sè na foja su pe n rèmo

Ascolta – Ascolta nel fondo di un’ombra| del vento tutti i colori| accarezza su una corteccia d’albero| il tempo che c’è fuggito| afferra una coccinella| con cui ha parlato un fiore| scopri nel buio del bosco| le piccole briciole della luce| e il borbottare afferra| che un temporale ha detto|| così tu sei una foglia su di un ramo