ALESSANDRO TRIONFETTI è nato nel 1969 A Roma dove vive e lavora come insegnante di Lettere presso un liceo scientifico statale. È autore degli spettacoli di poesia teatrale Batterie (2002), Ricerche (2004), Merica! Merica! (2006), Stanze romane (2009). Pubblicazioni ed editoria: 1997/2001 Redattore del mensile di cultura Input (ed. Università popolare di Roma Upter), con particolare riferimento alle tematiche letterarie e linguistiche; 1998/1999 Curatore di una rubrica sul linguaggio giovanile romano sul settimanale “Momento sera”; 2010 Batterie, Centro Internazionale della Grafica di Venezia, dal quale sono tratte la Nota dell’autore in apertura del volume e le poesie qui di seguito proposte.
Nota dell’autore
Dalla poesia cronologicamente più lontana all’ultima contenuta nella raccolta passano circa quindici anni, un periodo certamente lungo (e particolarmente interessante se si individuano le radici di molti fenomeni culturali, sociali ed economici dei nostri giorni negli anni Novanta) che mi consente di fare una riflessione sulla mia esperienza di scrittura e una breve analisi di alcune caratteristiche che ritengo peculiari dei testi che ho scritto. La pubblicazione di poesie che finora hanno avuto diffusione soprattutto orale è per me anche l’occasione per una riflessione sulle motivazioni che inducono oggi alla scrittura poetica. Se ripenso ai luoghi in cui queste poesie sono state lette (librerie, associazioni culturali, circoli politici, botteghe artigianali e commerciali, bar, locali, scuole, un tetto) e alle occasioni di queste letture (festival letterari, reading, manifestazioni, feste di piazza) mi sembra evidente che in questi quindici anni ho considerato la poesia come una possibilità di intervento, come un discorso pubblico al pari di altri (anche con un pizzico di ironia). E l’ho pensata cercando di realizzarla come veicolo di comunicazione, come atto fisico (da leggere, recitare, accompagnare con gesti, da solo o collaborando con musicisti, cantanti e curatori di immagini video proiettate). Questa dimensione teatrale e sociale delle poesie si riflette nei temi affrontati (la città, il lavoro, la produzione delle merci, la pubblicità, le guerre, lo spaesamento dell’identità nel paesaggio urbano, ecc.) e penso in una certa sonorità dello stile. C’è da aggiungere che ho vissuto questa possibilità di dire qualcosa sulla contemporaneità, confrontandomi anche con l’insufficienza delle mie risposte, come un lavoro di ricerca (e i testi accanto a certezze contengono anche dubbi, necessità di aprire discussioni). Ho considerato questo percorso come uno strumento di critica delle tendenze regressive in atto nella nostra società a tutti i livelli (dall’appiattimento culturale allo sfruttamento sempre più intenso del mondo del lavoro), tendenze fortissime anche nel settore che attiene più strettamente alla poesia, quello del linguaggio. Anche per formazione mi è inconcepibile pensare alla poesia senza una sperimentazione sul linguaggio. L’impoverimento lessicale e la superficialità dei prodotti linguistici diffusi dai media prosciugano il terreno in cui il linguaggio poetico si sviluppa. Ho quindi inteso la poesia come spazio dove interrogarmi sulle parole che usiamo, sul loro sguardo cristallizzato in fonemi. Non so se tra intenzioni e realizzazione ci sia consonanza o meno, questo giudizio spetta naturalmente a chi leggerà il libro.
Alessandro Trionfetti
Traite!
Il pittore non ha voluto vedere il ritratto
d’Innocenzo X
ne studia le riproduzioni, ma non l’originale
la tela ha un senso d’ospedale
allo sguardo penetrante del primo
l’altro risponde col grido
il grido del babbuino in gabbia
il grido d’un vagabondo
lo spavento del figlio d’un allevatore di cavalli di Dublino.
Velàzquez-Bacon?
lo studio profondo delle riproduzioni
lo studio profondo delle riproduzioni
campi di carne su sfondi arancioni
quando l’orfano violenta il viso con le mani
e le bestie vanno al macello senza domani
s’alzano i monsoni umidi
su steppe di lettere staccate…
«Fàlite dereto colo palo Carvoncelle
ecco le colonne, quelle… fili dele pute tràite coi lacci»,
Clemente o Sisinnio cristiano o pagano uguali storielle
sostituisci le sentinelle ma stessi muscoli stessi bracci
stesse ascelle stessi trapezi-rombi stesse celle
e stelle senza soffitti cimici stessi cagnacci:
«tràite-traìte! Schiavetti del cuoio e delle mattonelle
servi del tessile delle cartelle fabbricanti al torchio del siderurgico agli spacci
ai chioschi delle collanine delle sigarette delle bancarelle
degli organi in viaggio: cistifellee cornee midolli polpacci
di ignudi aperti e svuotati abbandonati sulle barelle
membri sulle fiammelle inceneriti e cotti come gallinacci
traite! operai di Pomigliano trivellati di colpi nelle
ore libere e belle, non dovete più tribolare non avete impacci
tumorati del petrolchimico rotti in pelle
fatti a fettuccelle tranciati dalla Pirelli non cacci
ma assemblati graffati verniciati e torniti come modelle
fili dela puta traite! nelle navicelle imbarcati e staccati dal mare agli abbracci
rimasti sugli scogli a Ustica Pantelleria Bisciaglie
appollaiati su cavalli senza selle bruciati nel rogo dei periferici bracci,
siete poveracci avete solo gli stracci
guaglione bulgare negre rumene trajte e date le vostre fontane
svestite le carni umane inadatte al nuovo clima
ai fuochi sparsi affumicate e leppose le collane
variopinte mondane brilluccicano assieme all’intima
biancheria, abbandonate dove non passa cane
con la stessa che tocca il pane prendete i cazzi vendete l’anima
dimenticate le terre lontane ogni speranza terrena se pur minima.
Trajte fili de puta! Vittime negre o campane della
carovana anonima nelle civilissime notti metropolitane
smenate strusciate le mura vaticane
Caracalla il lungotevere delle Pantegane o l’Ardeatina
Trajte! Figlie della cocaina in vetrina dalle ore pomeridiane
nelle strade romane che portano al mare a valle o in cima
prendete affogate gridate di dolore o vane
ché non vi salva nemmeno la rima»
Stanze romane
In quel periodo nelle Marche, ’48 ’49, erano momenti
Di rivolta tra contadini e padroni
Le manganellate, bisognava stare attenti
Ecco dicono: i comunisti i sindacati i rompicoglioni
Hanno rovinato l’Italia! Insomma non ciavevano nemmeno…
Perché protestavano, ciavevano la disdetta dei padroni
L’hanno saputo da uno che dice: un terreno
Ce sarebbe ‘na possibilità a Roma
E questi che ciavevano meno de meno
Niente da perde, caricata la soma
So partiti, ma c’era la terra, le case nun c’erano!
Qui sulla Prenestina fuori Roma
C’era un ovile una cascina un capannone dopo il pantano
Chiamamolo così, sto capannone pe’ capisse
L’hanno diviso per famiglie e il lotto extraurbano
Non è mancato a nessuno insomma pe’ capisse
Io ciò sette ettari due me li vendo
Così se fa la casa pure quello, poi i figli, insomma peì capisse
Castelverde è cresciuta così
Il fascismo prima, la Dc dopo, avevano spaccato in due la città
Una legale coi servizi
L’altra abusiva, esterna, fitta
Senza acqua luce collegamenti derelitta
Abusiva (di necessità), di una massa circoscritta
D’800 mila romani, lavoratori immigrati, chi subaffitta
La casa, chi in baracche, borghetti, capanne, stamberghe,
case senza mura, ladri, serviclienti, poveracci e cani gatti sorice galline
pidocchi purci zecche trovatelli
che contano meno de meno
perché la legge del ’39, gli negava la residenza, quindi l’iscrizione al collocamento, il voto, la sanità
nel 1960 500 mila romani in clandestinità: non hanno lavoro perché non iscritti all’Ufficio Regionale del Lavoro, non hanno l’iscrizione perché non hanno residenza, e accettano ogni lavoro a qualsiasi salario.
Tambroni li chiama ladri, papponi, violenti patologici.
La battaglia delle consulte popolari, per la residenza, per risulatre, per esserci,
poi la casa i servizi, le consulte ereditavano i centri rionali di liberazione
per trasformare lo spirito di rivolta contro l’occupante
in lotta per uscire dal degrado. Vent’anni d’assemblee di scala, caseggiato, strada, in piazza, al Campidoglio nel ’74, 69 giorni di presidio, per la casa, requisitele no?
"le case ci stanno, perché non ce le danno?"
"le case ci stanno, perché non ce le danno?"
"le case ci stanno, perché non ce le danno?"
pure di notte, ci fanno il Capodanno:
"A sor sinnaco, a sor sinnaco, questa casa ce la voi dà;
in mezzo alla fontana c’è Minerva, che da du’ secoli c’ha ‘na palla ‘n mano,
pare che s’è stufata pure quella e ce domanna quanno ce n’annamo".
Delegati delle fabbriche della Tiburtina, Pomezia, Prenestina
I politici, le donne dall’ardeatino, laurentino, portuense, ostiense, tufello, nomentano, tiburtino.
Sedici giorni di sciopero per la scuola, per averla
Poi arrivò la celere, mentre noi sempre più esperti perché nel frattempo si faceva anche la lotta di partito, insomma ne abbiamo fatte di battaglie e quindi noi due tre di noi se metteva vicino a un celerino, ce cominciavamo a parla’, andavamo lì pe’ parla’ era ‘na cosa favolosa…
Affitasi-vendesi-affittansi
Alloggio vano soggiorno sottocucina
Quattro cinque stanze irrelate
Divise isolate indivise monolocale
Di 7 metri quadri con angoli
Divano per esperienza individuale
Di annichilimento personale
Solo italiani solo stranieri foresteria non residenti
Assolutamente
Ragazze serie cercasi con genitori
Referenziatissimi
Il movimento romano delle borgate ebbe
Molti meriti: aprì la strada alle giunte rosse, cambiò la cultura:
l’urbanistica divenne
da padronale a fatto democratico popolare,
la periferia è diventata città, col fascismo e la Dc era fuori:
l’acqua fino al sessanta con le botti la portavano alle famiglie a du damigiane pe’ famiglia,
ha unito la classe operaia edile al sottoproletariato
per difenderlo ed emanciparlo
dai circoli clericali che lo compravano co’la pasta e co’l’ojo
dai circoli reazionari che lo usavano come massa di manovra e urto
contro i lavoratori:
col dito ho fatto un cerchio:
qui dentro non demolite, bisogna perimetrare
in un progetto, una variante, un piano
particolareggiato per la gestione democratica
il recupero, la sanatoria, un equo canone…
ma tra un piano e l’altro
sempre in ritardo
la collettività sul profitto americano, nostrano, lombardo
che come un gattopardo salta da lotto a lotto
colate di cemento senza riguardo
per la gonfia Urbe, ma co’ le case vote, del sacco
liberista ecco il prodotto:
alveolari- palazzi celle torri dormitorio
ville
villotte a schiera grattacieli.
E qui il comitato di quartiere ha lavorato in maniera spettacolosa, allora c’era la giunta Petroselli, nel ’76-’77, ci mettemmo a lavorare per una proposta nostra, come volevamo la borgata…quindi lì c’è stato un lavoro guarda, ci hanno fatto i complimenti tutti gli urbanisti, perché è una cosa che in Italia non si era mai verificata una cosa simile, i proprietari uno pe’ uno li facemmo venì tutti al comitato di quartiere e amo discusso, su come uno l’avrebbe voluto…sulla proposta generale del comune noi dovevamo fare in modo che le cose proseguissero, perché qui era ‘na coperativa agricola, erano tutti piccoli proprietari, non c’erano terreni grossi pe’ costruì che so la scola, quindi tu arischiavi che a uno toglievi la terra e facevi arricchì l’altro vicino e abbiamo fatto tutto sto lavoro di ripartizione in modo che garantisse a tutti un’ equità, guarda un lavoro che anche a livello sociale che erano persone che non si parlavano, parenti che litigavano, che nun se parlavano, semo riusciti a unilli, col fatto che dovevano venire a discutere, veramente una cosa che io ciò pianto quando è stata bocciata sta cosa guarda io non me vergogno de dirlo ma io ciò pianto.
Autobus
1.
prendo l’autobus
verso la casilina
non come atto
ma come costruzione collettiva
il carburante non è altro che l’esperienza comunicata, un patto
della forza organizzata, uno sforzo dell’intelligenza
unita alla prassi, non sterile, se è nell’atto,
l’autobus imbocca lo stradone, ciò che è, è
non servono fiori
conoscere la città
mi sposto, non è la mia fermata
negare la violenza?
l’ultimo tratto della casilina, non c’è un cane
2.
di corsa umido più acceso
arancione squadrato
macchina obliteratrice
s’appoggia ai sostegni
freddi o a tratti caldi
lastre di ghiaccio
che cominciano a sciogliersi
ansima
bollente arancione
graffia
il fiato sui binari
Roma Pechino
I quartieri nuovi li costruirono all’imbocco
delle vie di fuga degli esodi, della partenza
intelligente: Anagnina, Tor Pagnotta e in blocco
Bufalotta, Malafede, sanza licenza
sulla Flaminia, fino alle rive porziane dove lo scirocco
trasmigra i miasmi tiberini verso la tumescenza
dell’Eur, verso un nuovo sbocco
per l’edilizia del “delizioso cemento”, fuori ormai dalla sua adolescenza
e spalmata nell’iter dello scrocco.
La scena d’un film sull’incontinenza
del sacco cittadino palazzinaro barocco:
inquadratura sui prati della Tenuta Torlonia, poi in sequenza
contropiano sulla torre e i casali, il fiocco
tricolore in attesa del taglio, la tavolata, l’opulenza
dei vini, delle portate, degli antipasti, lo schiocco
della degustazione, l’onnipresenza
delle mollichine di Lariano o Genzano e il tocco
sommerso delle eruttazioni, il tappo che esplode. La benedicenza
del pane e del vino seguita dal rintocco
delle forchette sui calici mentre da una gru è sospesa l’imponenza
d’un porco arrostito, scorcio dal basso, il grugno, l’allocco
sguardo, i limoni. Ma chi coglierà l’inquieta trascendenza
del volto di Fabrizi? L’affanno, il tragico sbrocco,
il timbro, la linea, il gesto decadente, la violenza?
Forse lo stesso Francesco Gaetano alzato il rabocco
declamerà le meraviglie dei bianchi parallelepipedi con la parvenza
di un antico patrizio pigro, inabile alla guerra, su un brocco
in visita alle tenute di campagna dell’agro romano con la coscienza
della necessità, visti i tempi, del cambio del brocco
per lanciarsi al galoppo d’un cavallo in corsa, senza riconoscenza
per il brocco stremato. Ritrovare la fame di frontiera,
avanzare, tutto travolgere, saltare con la criniera
sconvolta dal vento, con slancio oltre la barriera,
cavalcatura senza briglie, sentieri, vincoli, bandiera
se non quella dell’assoluta libertà della propria schiera,
i modernizzatori della filiera
del mattone: calce, tubi, cemento, cazzuola, lamiera,
cantieri, caporali, operai, lotti, prati, terreni dentro la sfera
dell’accordo di programma, in deroga. O vera
rapina dei clivi del suburbio! O soffio di bufera.
Nove batterie
4.
ci ritrovammo sfollati nel campo dei cespugli
lì fermi tra i cespi e gli intrugli del suolo cosparso di velature ignote.
La sabbia s’attacca ai passi e le alghe tralucono da scogli
trasparenti, un viola umido e fermo che posa sulla foce a bassa quota.
Rivoli bollenti di solventi, cloroformio, tetracloruro di carbonio, miscugli
di trialometani, poltiglie di tricloroetilene, bromorfio, vote
rive senza corpi né ombre. La laguna ingoia tutto e non puoi opporgli
dati verificabili, le remote
vite che perdurino tra i flutti dei fusti di petrolio:
la marea li allontana e poi li rigetta aperti
su pietre svaccate, altri rimangono incagliati
sui fondali. Il vento alza la schiuma
che con un leggero sfrigolìo brucia i germogli
di qualche fronda scampata, gemme immote.
La forma sporgente
di un pieno di niente.
7.
Non pensavo, camminando sotto i portici di questa piazza
sabauda, dove arrivano i fragori del mercato, delle bancherelle
cinesi, tra le pareti sporcate dalle réclame e dalle chiazze
dei piccioni, di incrociare questa sfilata imbelle
di tricolori che in una marcia irreale nel rumore cittadino inneggia alla
[ razza,
falange rigettata dalla cannella
del passato. Così tra sguardi di ignare corazze
ecco di nuovo la fiammella
fascista. Mi dici di quel ragazzo che nello schiamazzo
dei corridoi scolastici, ti dice di vederlo,
lo veda, professoressa, è in rete, un video negazionista,
lo veda, dice, con quel candore senza forma
di chi non sa nulla. Mi ritrovo nel guazzo del drappello
che improvvisa un comizio,
una vetrina un tizio
8.
Il file della Tristezza volteggia tra le rovine
delle vetrine e si specchia esangue nello schermetto
del nokia. Perplessità con il volto di faina
galoppa a caccia di medicine tra lavatrici, frigo, germi,
scorte, scocche, giunti, cose, mine,
protesi, verso il confine, non più cose, ferme:
tra il cascame dell’outlet è ricresciuta l’erba, le spine
dei rovi sparse di lattine, un fustino inerme
and toys. Un bambino
sfacciato ha sparso un lego gigantesco all’esterno,
un cumulo di mattoncini stamattina
in mezzo alla strada, fino agli attici, malfermo.
Intanto un robot, alto come un palazzo, affine
ad un prodotto tardo-toyotista è uscito da Tokio
e vaga per la campagna giapponese.
Gundam guarda il sole che cade
rincorre le mucche fuori
coglie i fiori