La teoria del transatlantico

di Carlo Tosetti

 

[FEBBRAIO 2022] La teoria del transatlantico. Prefazione di Anna Maria Curci. Edizioni Cofine, pp. 48, ISBN 978-88-98370-87-0 Euro 7.00

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IL LIBRO

La teoria del transatlantico si articola in sette libri di sette componimenti ciascuno: I. Il transatlantico Albizia, II. Il funzionario del magazzino, III. Il cuciniere, IV. L’addetta all’ufficio reclami, V. Il direttore della compagnia di navigazione, VI. Il passeggero, VII. La teoria del transatlantico.

Fin dalle prime battute, il poema unisce l’allegoria della nave alla collocazione storica che va dal ‘secolo breve’ – il Novecento dei due conflitti mondiali, dei totalitarismi e della ‘scoperta’ della propaganda come strumento di suggestione delle masse e di conseguente gestione di un ampio potere su di esse – alla contemporaneità dell’automazione del lavoro, delle nuove schiavitù e del sempre più feroce classismo.

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L’AUTORE

CARLO TOSETTI (Milano, 1969) vive a Sirtori (LC). Ha pubblicato le raccolte: Le stelle intorno ad Halley (LibroItaliano, 2000), Mus Norvegicus (Aletti, 2004), Wunderkammer (Pietre Vive, 2016), La crepa madre (Pietre Vive, 2020. Primo classificato al Premio Città di Chiaramonte Gulfi 2021; primo classificato al Premio Letterario Internazionale Città di Sarzana 2021; secondo classificato al Premio Nazionale di Poesia L’Arte in Versi 2020). Suoi scritti e recensioni sono presenti su varie riviste e lit-blog.

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NEL LIBRO

(dalla prefazione di Anna Maria Curci)

L’allegoria della nave per l’esistenza e l’organizzazione della comunità umana, alle prese con lo scorrere della storia da un lato e le scelte individuali dall’altro, ha uno sviluppo che ha gettato le sue ancore in posti molto distanti nel tempo.

Ha navigato, come ricordava Erich Auerbach in Mimesis, con la Bibbia dell’arca di Noè e, soprattutto, dell’imbarcazione sulla quale viaggiava Giona riluttante a recarsi a predicare a Ninive…

(…)

È con La fine del Titanic (Der Untergang der Titanic, 1978) di Hans Magnus Enzensberger che, tuttavia, si manifesta, con evidenza ed efficacia del dire, il passaggio a un livello allegorico ulteriore, alla lama affilata della critica puntuale al celebrato ‘progresso’, allo smascheramento, nelle figure, nelle fogge diverse e nelle ‘gesta’ di ufficiali, cambusieri, marinai e passeggeri della nave – delle grandi illusioni, manovrate, queste, da ingranaggi di regolamenti, retorica, manipolazioni.

Se il naufragio del Titanic il mattino del 13 maggio 1912 è stata la prima apparizione di quella che Enzensberger definiva la fine del mondo in piccole dosi, esso ha evidenziato, come si palesa nelle trentatré cantiche del poema (il riferimento del poeta tedesco a Dante è intenzionale), che la catastrofe ‘a pezzi e bocconi’ è in realtà la fine dell’umanità divisa per classi.

La teoria del transatlantico di Carlo Tosetti fa tesoro della constatazione di Enzensberger e le conferisce nuovo impulso, nuovo slancio.

(…) fin dalle prime battute unisce l’allegoria della nave alla collocazione storica che va dal ‘secolo breve’ –  il Novecento dei due conflitti mondiali, dei totalitarismi e della ‘scoperta’ della propaganda come strumento di suggestione delle masse e di conseguente gestione di un ampio potere su di esse –alla contemporaneità dell’automazione del lavoro, delle nuove schiavitù e del sempre più feroce classismo: «Centoquarantamila di cavalli/ stantuffano inauditi ai trenta nodi, /solcando sugli abissi e fondivalle./ Al faro di Ambrose! E dietro le spalle/ al Nastro puntando Zena scompare,/ poi Gibilterra – fu nel trentatré».

La sestina iniziale colloca nel 1933 la conquista del Nastro Azzurro da parte del transatlantico in questione e non è difficile scorgere l’allusione all’impresa compiuta nell’agosto di quell’anno dal transatlantico italiano Rex, fiore all’occhiello della navigazione e motivo di orgoglio nazionale, accompagnato da una nutrita dose di retorica di regime, nel ventennio fascista. Nelle sestine successive la prospettiva si allarga, a ritroso con ‘l’inizio della fine’, già intravisto da Enzensberger, vale a dire con lo scontro fatale del Titanic con l’iceberg, e in avanti con la catastrofe che si sta avverando ai nostri giorni: «Sola nemica è la catastrofe, ora:/ l’iceberg, sbronzo un capitano nella/ tempesta rara e l’isola neonata/ – vulcanica germoglia inusitata –/ assente dalla mappa. Ciò che affonda/ alfine un transatlantico è la storia».

Nel II libro, sembra che sia proprio il funzionario del magazzino, che sogna di Giverny in Normandia e della pittura di Monet mentre deve fronteggiare richieste pressanti e domande che appaiono bizzarre (ma che sono semplicemente inattuali al cospetto della marea dell’automazione), come quella relativa a un pelapatate, a dare voce al punto di vista del poeta, che scorge le contraddizioni e la corsa verso la rovina: «Io sogno i miei campi. Il lento rifarsi/ dei petali in natura: il cieco intento/ di proseguire nello sboccio a tutto/ malgrado del fiore sfiorito il lutto./ Sono uguali la nave e la teoria:/ essa persiste indoma, anche se muore». Se è così, la voce non è affatto priva di autoironia.

È insieme al cuciniere, tuttavia, che nel III libro è dato di addentrarsi tra i sotterranei e dietro le quinte, oltre la facciata menzognera, sostenuta da una lingua artefatta e artificiosa, in un transatlantico che è nave e, allo stesso tempo, è il corridoio della sede della Camera dei Deputati a Montecitorio, tra gli ingranaggi fagocitanti della produzione con tempi e spese ridotti al minimo e con costi umani ingenti: «Lo strepitare elettrico d’insonni/ macchinari: impastano, sminuzzano,/ si tagliano i tempi e la produzione/ aumenta, illude la rivoluzione/ del vapore che attenta – non è vita,/ l’inganno solca lesto del motore –». Il distico che conclude il terzo libro è lapidario e inequivocabile: «un equipaggio intero il cui lavoro/ abbozza falso un lusso che par vero».

Come sa l’addetta all’ufficio reclami nel IV libro, lagnanze e sollevazioni saranno cestinate le une, coperte dall’oblio le altre. Nella scintillante facciata della modernità, un pelapatate è di certo fuori posto: «Albizia è nave moderna, in cucina/ non vi è la mano corriva a spelare:/ macchine tagliano meglio dell’uomo,/ frullano, impastano, il caso – mai domo –».

Il direttore della compagnia di navigazione ribadisce il concetto con il quieto sprezzo di chi sa che può calpestare impunemente nel nome di un progresso che in realtà è saccheggio: «E voi – gli eversivi, i grigi utopisti/ – della dignità del duro lavoro,/ voi, gli ottocenteschi ancora latrate/ di nobiltà nel pelare patate». Eppure, nel V libro si alza un velo sul mondo di chi è sottocoperta, della vergogna nascosta, degli umani di cui si fa merce e traffico (come gli “ultracontrabbandieri”, vale a dire le persone trasportate di contrabbando e celate alla vista dei ricchi passeggeri paganti, nel romanzo Pigafetta di Felicitas Hoppe): «Vivete bassi, da terra osservate,/ ma chi siede al sommo scruta la rotta/ sola; sottocoperta – infimo mondo –/ umile magma sobbolle fecondo/ e poco c’importa cosa disciolga./ Un transatlantico non ha memoria».

Se il passeggero del VI libro getta in faccia a chi legge lussi e privilegi di chi «cura i viaggi di merci, di trasporti» e, in quanto tale, si sente spudoratamente superiore, è nel VII libro, quello conclusivo, che la «teoria del transatlantico» viene pronunciata, e denunciata, esplicitamente. Il lucro di pochissimi, «il lustro dei nostri ristoranti», è sostenuto dallo sfruttamento illimitato di una forza lavoro le cui lagnanze sono silenziate da un sistema di «piccoli poteri e pari stanze». L’idolo creato, allegoria del capitale vorace fino a diventare cannibale, è la Grande Nave, il cui fine non è, come dichiarato ipocritamente, quello di unire due banchine, due sponde, due porti, bensì quello di lordare l’una e l’altra meta, il punto di partenza e il punto di arrivo, insieme a tutto ciò che si incontra durante la navigazione e all’intero percorso.

Anna Maria Curci

 

Libro I

I

Centoquarantamila di cavalli
stantuffano inauditi ai trenta nodi,
solcando sugli abissi e fondivalle.
Al faro di Ambrose! E dietro le spalle
al Nastro puntando Zena scompare,
poi Gibilterra – fu nel trentatré.

 

Libro II

I

A Genova in ufficio vivo i giorni
barbosi perché firmo, dopo il vaglio,
le solite richieste della flotta:
ha consumi d’usura, essa dedotta
dai moduli codice sei, alti cumuli
erodono l’appoggio dei miei gomiti.

 

Libro III

I

In cucina si parla, è virulenta,
la lingua che infettò tutte le corti
– persino inzeppava l’aria a palazzo
d’inverno – e potente qui lo schiamazzo
è francese anche nell’urlo dei piatti
e assorda nientemeno l’incocciarsi.

 

Libro IV

I

Dice la teoria del transatlantico
che cammini un mastodonte per i grandi
numeri a favore e anche quando il male
intacca delle cellule, s’avvale
il colosso dell’utile prodotto
e tiri dritto senza pencolare.

 

Libro V

I

Sospinge il danaro all’ovest le navi
e ne è carburante, come alle vele
smorte ricolmano il vuoto Alisèi.
Totipotenti, doni prometèi
– danno la forma i danari – plasmano
scafi, ne fanno induriti pensieri.

 

Libro VI

I

Spesso viaggio su Albizia, al nuovo mondo
anelo – fertile luogo – lavoro.
Io curo i viaggi di merci, i trasporti.
Con colleghi compagne le consorti
– in prima classe immersi, in grande agio –
traverso l’infinito mare, godo.

 

Libro VII

Non è il tutto la somma delle parti:
un probo marinaio in sofferenza,
un pezzo guasto che non sia il motore:
nulla cambia dell’apparente ardore
d’opulenza che solchi a trenta nodi,
dell’inganno d’un lusso che consoli.