La stornellata de Pinocchio di Fabio Prasca. Un’anticipazione

Siamo lieti di ospitare in anteprima questo estratto de La stornellata de Pinocchio. Poema in ottave d’un burattino de noantri, prima opera poetica del romano Fabio Prasca (che sarà prossimamente edita). Qui di seguito ospitiamo la prefazione, una Nota dell’Autore, due eserghi e il III capitolo rivisitato del Pinocchio.

PREFAZIONE

Io ho deliberato di fare una marachella. E per farla mi sono messo a sbozzare, scalpellare e limare dei versi per far rivivere le avventure di Pinocchio, che di marachelle se ne intendeva. A differenza di quello collodiano, si tratta di un Pinocchio romano di nascita e di lingua: non chiama il buon Geppetto “babbo”, ma “tata” e parlando tira qualche “serciata”.

Vorrei che questa mia fosse semplicemente una stornellata burlesca e leggerona; più che altro un innocuo ripercorrere in versi le tappe, ma meglio sarebbe dire le stanze, attraverso le quali Pinocchio si è fatto uomo. È un giocoso abbandono al gusto della cantabilità dell’endecasillabo, che pare fatto apposta per essere recitato (o cantato) a teatro, “dove tutto è finto, ma gnente c’è de farzo”.

Nulla di nuovo in fondo. Come ricorda Tullio De Mauro, l’uso letterario dei dialetti ha dato i suoi migliori frutti dove prevalgono le ragioni del ritmo e della vocalità o le ragioni dell’evocazione di un andamento raccontato, come nell’epica, che con la recitatività orale ha avuto sempre “un rapporto originario e costitutivo. Una tradizione presente a Roma dal Seicento, “che culminerà nell’Ottocento con quanto di tonalità epica si può e si deve rintracciare nel commedione belliano e con i cicli epici di Cesare Pascarella”.

A ciò si devono, quindi, anche il titolo di “stornellata” e il sottotitolo di “poema”, che ho dato alle avventure di Pinocchio in salsa romana e romanesca. Si tratta infatti di “stornelli” che vogliono “cantare” le epiche avventure del nostro burattino nazionale, in ambientazioni romane e con riferimenti all’attualità, per rendere più vivo, più vicino e, si spera, più godibile il racconto.

 

NOTA DELL’AUTORE

Per facilitare la lettura e la comprensione del testo ai non romani, si è adottata una rappresentazione grafica del dialetto quanto più possibile vicina a quella dell’italiano e, quindi, non caratterizzata da quel “sommo abuso di lettere”, che contraddistingue la scrittura dei Sonetti del Belli. E’ però opportuno ricordare ai lettori che il romanesco ricorre sistematicamente al raddoppio consonantico, soprattutto all’inizio delle parole, e quindi, nel leggere, un buon orecchio non dovrebbe rinunciare al valore espressivo, al vigore e all’enfasi che ne derivano. Vi sono poi altre particolarità fonetiche e fonologiche del dialetto romano, per la illustrazione delle quali si rimanda a quanto scrisse lo stesso Belli nella sua “Introduzione” ai Sonetti.

Il testo è infarcito di citazioni belliane (che sembrano scritte apposta per il Pinocchio e che fanno dei Sonetti un libro che, forse, Giorgio Manganelli definirebbe “parallelo”) e di alcuni altri autori romaneschi, di cui le note al testo danno conto, insieme al significato di talune espressioni dialettali, per la cui spiegazione si sono sovente utilizzate le stesse note scritte dal Belli a corredo dei suoi Sonetti. A tal fine, si è fatto ricorso all’edizione tratta da: Tutti i sonetti romaneschi, Giuseppe Gioachino Belli; a cura di Marcello Teodonio. – Ed. integrale. – Roma : Grandi tascabili economici Newton, 1998, liberamente disponibile in formato elettronico e gratuito all’indirizzo web del “Progetto Manuzio”: https://www.liberliber.it/mediateca/libri/b/belli/tutti_i_sonetti_romaneschi/pdf/tutti__p.pdf

 

 

Un essempio e finisco. Ar teatrino

chi la sostiè la parte ppiù ssudata?

Dite, er burattinaro o er burattino?

(L’ubbidienza, G.G. Belli)

 

 

A sto punto guardàmose ne l’occhi;

lo so cosa pensate fiji belli:

ch’io parlo der Paese dei Balocchi

o der Paese de li Campanelli,

’ndo se fanno i discorsi pe’ l’allocchi

e se pija la gente pei fondelli;

perchè la storia, detta a sta maniera,

pare fasulla perchè è troppo vera!

(Li romani in Russia, Elia Marcelli)

 

 

III.

Geppetto torna subito a bottega.

E tutta notte, senza chiude occhio,

lavora de martello pialla e sega,

perchè naschi, a la fine, un ber batocchio.

Poi, dar lavoro, fa na pausa e spiega

perchè je metterà nome Pinocchio.

E, appena fatte braccia e gamme snelle,

cominceno le prime marachelle.

 

1.

Sortirono a braccetto i du vecchietti.

Poi sor Antonio pijò pe’ Sant’Anna

de’ Falegnami[1] e porse l’arispetti.

Geppetto, lieto pe’ quer fior de manna,

piovutaje dar celo sui progetti,

stava pe imboccà in chiesa pe n’osanna:

ma, forgorato da na gran visione,

corse a bottega pe la creazione.

 

2.

Viveva, er nostro, in d’una stanzettaccia,

a pianterreno d’un vecchio palazzo.

Un tavolino, un letto e na sediaccia

ereno tutto: e poi nun c’era un cazzo.

A scallasse dar freddo e da la ghiaccia,

nun j’abbastava er foco pavonazzo,

che sbrillava in ner mezzo der camino:

era dipinto sotto a ‘n ber paino.

  

3.

Appena entrato ne la su bottega,

Geppetto messe mano ar burattino:

de martello, pianozza e poi de sega,

principiò a lavorà cor capo chino.

Poi se fermò, lisciannose na piega

der vecchio e ciancicato perucchino.

Ner mentre che sgrossava già er capocchio,

pensò tra sè: “Lo chiamerò Pinocchio!”

 

4.

“Questo nome je porterà fortuna:

c’è na famija intera de Pinocchi,

che, quanno, pe’ sta ‘nsieme, se riduna,

padre, madre e na schiera de marmocchi,

è na scena che l’occhi te straluna:

nun se sò visti mai tanti Pinocchi!

Vedessi ch’alegria, che tenerezze…

Che je frega si stanno co le pezze?”

 

5.

Deciso er nome, aripijò er travajo:

ecco i capelli, ecco la fronte e l’occhi.

Manco potè finì de fà l’intaijo,

che se sentì quell’occhi drent’all’occhi,

come saette, fisse sur berzajo:

e ar vecchio je tremorno li ginocchi.

Scocciato, disse: “Occhiacci, che smicciate?”

Ma nun ce fu riposta: solo occhiate.

 

6.

Dopo l’occhi, se messe a faje er naso,

ma quello, lesto lesto, s’allongava:

e più penava a riportallo a raso

e più quer naso a punta aricicciava.

Facenno finta de nun facce caso,

Geppetto, a testa bassa, l’allisciava.

E, appena je finì de fà la bocca,

ècchete ‘na linguaccia che je schiocca!

 

7.

Seguitò, senza tregua, er falegname,

a scarpellaje collo, busto e mani.

Allora je toccò fà n’antro esame

de pazienza: perché, co’ quelle mani,

Pinocchio j’araffò via quer frascame

de perucca e sto scarpo dei moicani,

se lo schiaffò, beffardo, su la zucca,

sparanno pose da vecchia bacucca.

 

8.

Sfumati l’arimproveri de rito,

Geppetto je piallò le gamme e i piedi:

e dunque er burattino era finito.

Er bon vecchio lo vorse mette in piedi:

lo teneva pe’ mano, sur piancito,

co quelle cianche secche come spiedi,

come ‘n pupo che move i primi passi,

perchè nun caschi in terra e se sfracassi.

 

9.

Poi che s’ebbe le cianche ben sgranchito,

pincipiò a camminà solo soletto;

e dopo ‘n po’, zompanno già spedito,

‘mboccò la porta e uscì ner vicoletto.

Vedenno ch’er pupazzo era sortito,

je corse dietro, er povero Geppetto.

Ma er leprotto s’involò giù pe’ la via,

co Tata appresso a strillà “Chi me lo pija?”

 

10.

Sur serciato faceva ’n gran fracasso,

come quanno ch’ariva ’n bersajere,

e la terra arisòna a ogni suo passo.

E, arimbombanno, quer filubustiere,

berbello, se la divertiva a spasso;

finchè nun l’annasò  ’n carabignere:

er burattino, vistose futtuto,

cominciò a dì: che Tata era ‘n cornuto;

 

11.

che spesso e volentieri je menava;

che nun je dava gnente a colazione

e puro a pranzo e a cena l’affamava…

E come spesso accade, un bontempone,

che stava là quer giorno e cionnolava,

de quer fatto se fece tistimone.

E fu accusì – scusate si m’arrabbio –

che Geppetto fu accompagnato ar gabbio!

 

Nota 1 La chiesa di Sant’Anna dei Falegnami è una chiesa scomparsa di Roma, nel rione Sant’Eustachio. https://it.wikipedia.org/wiki/Chiesa_di_Sant%27Anna_dei_Falegnami

 

FABIO PRASCA, nato a Roma nel 1967, è sposato con Lucia, con la quale ha avuto due figli, Giacomo e Agnese. Vive da sempre al Tuscolano, dove ha frequentato la Casa dei Bambini di Viale Spartaco, magico luogo di sperimentazione della libertà responsabile, fondata nel 1950 da Flaminia Guidi, allieva di Maria Montessori. Dopo il liceo classico, la laurea in giurisprudenza e l’abilitazione all’esercizio della professione di avvocato, ha lavorato alla Camera di Commercio di Reggio Emilia, all’Avvocatura del Comune di Roma e all’Enea. È avvocato dell’Agenzia Spaziale Italiana. È stato tra i fondatori del Movimento Consumatori di Roma e, dal 2004 al 2009, presidente del Comitato regionale degli utenti e dei consumatori della Regione Lazio. Ha partecipato alle attività della Comunità Territoriale del VII Municipio e, nel 2012, è stato tra i promotori della Delibera di iniziativa popolare “Rifiuti Zero”. Agli inizi degli anni ’90, ha cominciato a interessarsi alla poesia dialettale del Novecento grazie all’antologia curata da Mario Dell’Arco e Pier Paolo Pasolini. Ispirato dalla lettura della raccolta di sonetti “Daje de tacco…” di Claudio Verdini, figlio di Raoul, si è cimentato nella scrittura di sonetti in romanesco. “La stornellata de Pinocchio” è la sua prima pubblicazione.

 

Pubblicato il 3 febbraio 2019